Lo scorso 27 novembre, Napoleone Cera, presidente del Gruppo Popolari della Regione Puglia è intervenuto al dibattito “Quale riforma Costituzionale…parliamone”, organizzato a Termoli per discutere sul referendum del 4 dicembre. Se il 4 dicembre dovesse vincere il SI non si consumerebbe uno strappo tra vecchio e nuovo regime democratico, ma più drammaticamente si metterebbe la parola fine al processo di riconciliazione avviato dai padri costituenti.
È vero che tale processo non si è mai completamente compiuto, ma è altrettanto vero che 70 anni fa, quando si decise di scrivere la Carta Costituzionale, si trovò l’accordo di tutte le parti in causa per definire i principi ispiratori della vita democratica del nostro Paese. Accordo che, come ebbe a definirlo Aldo Moro, era frutto di una “felice convergenza di posizioni”, ovvero realizzazione di un efficace strumento di convivenza democratica.
Per questo la discussione sulla riforma costituzionale è viziata dalla mancanza di una convergenza d’intenti e di ruoli. Da una parte non è chiara la finalità della riforma: non serve snellire e velocizzare i processi legislativi, ma rendere migliore la qualità dei provvedimenti adottati. Dall’altra parte, non può essere il Governo a farsi promotore di una riforma che è propedeutica alla costruzione di un diverso Stato e della rappresentanza della “sovranità popolare”.
Il 19 luglio nell’incontro al Teatro Adriano di Roma, l’UdC ha rappresentato le sue perplessità al progetto di cambiamento della Carta Costituzionale. Non perché non ci rendiamo conto che la Costituzione abbia bisogno di un tagliando di revisione, ma perché l’idea di cambiamento, portata avanti dal governo, stravolge i concetti che sono alla base della nostra Costituzione, così come concepita 70 anni fa.
Vorrei allora provare a ragionare su alcune parole che meglio rappresentano il confronto referendario. Inizierei con la prima.
CULTURA – Sembrerà assurdo che lo dica, ma devo ringraziare il premier perché mi ha permesso di riscoprire la bellezza della nostra Costituzione, quella che da 70 anni governa il nostro agire di cittadini e d’italiani. La cultura è rapporto di comunione, di condivisione e di coesistenza. È un rapporto paritetico e totalizzante tra uomini che sono chiamati a costruire la loro storia non esasperando le lacerazioni, ma tessendo speranze e seminando pari opportunità. Invece, da parte del governo assistiamo a uno stravolgimento dei principi della nostra Costituzione. Non siamo in presenza di una cultura costituzionale, portatrice di valori condivisi, ma di un terrorismo costituzionale, figlio di parzialità e succube della legge del più forte. Si è sostituita l’arroganza alla fratellanza. Capite bene che a queste condizioni l’UdC, partito che si richiama alle idee di De Gasperi e Moro, non può sostenere chi vuole uno stravolgimento dei principi fondamentali della nostra Costituzione.
L’altra parola è:
PARTECIPAZIONE – Appare chiaro che senza partecipazione non c’è democrazia. Non puoi chiamare al voto i cittadini su una riforma che è geneticamente modificata da un governo non abituato al confronto libero e franco. Se non sei sulla stessa frequenza del premier fai parte, bene che vada, di un’accozzaglia. Invece, a mio avviso, occorre precisare che non puoi invocare il voto popolare mentre svuoti il Parlamento, ovvero il luogo deputato ad essere rappresentativo del popolo. Così facendo cedi al populismo che è nemico della democrazia; perché un Governo che decide di essere arbitro e giocatore nella partita della riforma costituzionale non solo affossa la sua imparzialità, ma viene meno ad ogni ruolo di mediazione tra le parti. In pratica è saltato ogni compromesso e si sono innescate divisioni che hanno radici nell’egocentrismo del premier.
L’altra parola è:
CENTRALISMO – Il Molise, come recita un vostro azzeccato slogan, “è un fiore di Regione”. Piccola terra ma ricca d’arte, storia, tradizioni e paesaggi incontaminati. Non devo ricordarlo ai molisani, ma siete la Regione più giovane d’Italia, nata grazie a una deroga all’art.132 della nostra Costituzione. Ci siete perché bisognava rispondere a una esigenza territoriale. Tutto questo potrebbe non più avvenire; perché se da un lato vi lasciano credere che cresce la partecipazione popolare, dall’altro la riforma svuota la natura stessa degli enti territoriali. Dopo le Province, ora tocca alle Regioni, mentre i Comuni, specie quelli più piccoli, come sono tanti in Molise, rischiano di essere condannati all’inattività e alla cancellazione di ogni autonomia locale. Basta leggersi quanto prevede l’art.117 della riforma costituzionale che svuota le Regioni di competenze come turismo, ambiente, industria, solo per citarne alcune. In pratica assistiamo a un nuovo centralismo che taglia il filo conduttore dell’azione costituente di 70 anni fa.
Chiudo con una ultima parola.
CAMBIAMENTO – Partiamo da un presupposto: il cambiamento non è un valore assoluto. Ovvero non basta invocarlo per rendere appetibile una riforma, specie se una riforma non migliora ciò che è chiamata a cambiare. Il tema in questione riguarda soprattutto il metodo adottato che non favorisce la costruzione di maggiore partecipazione. Per questo è necessario, secondo l’UdC, mettere in stand by la riforma costituzionale e ragionare a bocce ferme per approvare le modifiche necessarie non a velocizzare i procedimenti legislativi ma a migliorare la qualità della politica. Perché, cari amici, il tema non è quello della minore burocrazia parlamentare, con il ping pong tra Camera e Senato (tema tirato fuori ad arte dal governo che dimentica che, quando si vuole, si approvano leggi in 48 ore, com’è avvenuto per l’ultima lettura della riforma costituzionale). Cosa può interessare a un imprenditore, artigiano o semplice cittadino quanti senatori ci saranno in Parlamento se poi per un qualsiasi permesso impiega mesi o addirittura anni per averlo? Occorre incidere su questi temi, non sul numero delle poltrone da svuotare che poi succede come le Province, si svuotano le assemblee e si aumentano le confusioni.
E allora, l’UdC non teme di metterci la faccia, come ha fatto contro le trivelle nei nostri mari. L’Udc non balbetta giustificazioni del momento. L’UdC si schiera apertamente e senza timori.
L’UdC non teme il confronto perché ha una forza che va oltre le ambizioni di Renzi e della Boschi. La forza dell’UdC è nella capacità di essere schierata nella difesa di valori che furono di De Gasperi e di Moro. Non gente da museo o da citare nei convegni accademici, ma esempi vivi perché la loro opera è l’immagine stessa di quella cultura costituzionale che il governo Renzi vuole mettere in soffitta.
Sia chiaro, non siamo contro una direzione nuova. Siamo contro una direzione che porta solo in un vicolo cieco. Il 4 dicembre, come spera di fare il premier per se stesso, non vogliamo consegnare i nostri nomi alla storia, esaltando i personalismi, ma vogliamo costruire un ‘nuovo racconto’, frutto della partecipazione dei cittadini e di chi li rappresenta.