La lenta costruzione dell’immagine può essere illuminazione o sconfine, nel tentativo di trasfigurare l’attimo della forma-veduta in costruzione sintetica che è allo stesso tempo labirinto e traccia. L’arte calcografica ha la caratteristica, unica nel suo genere, di unire percorso, scavo e sintesi in una sola visione densa come il flusso nero della vernice e profonda come le tracce dei solchi. I lavori di De Iuliis, giovane incisore molisano formatasi all’Accademia di Belle Arti di Napoli, si mostrano come lente strutture di forze implose proprio nell’insistenza ossessiva per un tratteggio invasivo e prismatico che scompone la liricità della visione, celandone il racconto e facendo emergere dal metallo uno spazio mentale e generico. Un’estensione lavorata, liquida e sfuggente, tormentosa e insistente come le impronte cesellate in un horror vacui asfissiante nel quale sembra di sentire l’ascesa dei pensieri allo strato della coscienza. Vi è pertanto un celato gioco di rispecchiamenti tra disegno, lastra ed anima, certamente nascosto nella convenzionalità apparente dello scorcio ma perfettamente leggibile se si mette da parte la struttura descrittiva e rappresentativa, analizzando il segno come specchio e tracciato psichico. L’intricato passaggio di piani, prospettici e chiaroscurali, comporta una complicazione inafferrabile, percepibile non solo come negazione e assenza bensì identificabile come lontananza e silenzio. Nel mondo asettico ed immateriale di tali stampe, che siano piranesiane suggestive vedute d’archeologia industriale oppure sperimentali astrazioni ottenute attraverso l’accumulo e la sublimazione di oggetti e spessori, vi è come una sorta di vita interiore che suona i solchi corrosi dagli acidi e sfiora l’epidermide sensibile della realtà come di chi vive incessantemente rinchiuso nei suoi atti e strappa dal mondo solo quegli oggetti e forme capaci di formare luce. Da qui la suggestione del titolo, che riprende la celebre raccolta di liriche di Pedro Salinas La voz a ti debida, e che ci suggerisce il luogo analogico entro il quale lavora l’artista, un luogo materico e metrico, ovvero messo a schema, che ruota intorno al tentativo di senso e alla ricerca impossibile di accordo e di voce –la voce dei luoghi o delle strutture interne della materia- «Non si vede nulla, non si sente nulla. / Superflui gli occhi e le labbra, in questo mondo tuo. / Per sentire te non valgono i sensi consueti, / che si usano con gli altri. / Bisogna attenderne di nuovi. / Si cammina al tuo fianco sordamente, al buio, / inciampando nei forse, nelle attese; / sprofondando verso l’alto con gran peso di ali» (Salinas). Si percepisce, infatti, nell’ossessione dell’inciso la perdita di una maschera e lo svelamento, in profilo di grido, di una forma sensibile e personale d’assenza rotante intorno all’idea assoluta del disegno quale unico strumento per controllare il rifiuto, quando la vita diventa ciò che si concretizza nella distanza piatta del metallo. L’acido è una bella metafora di questi sottili cambiamenti di stato e della trasfigurazione che ottiene il segno nel momento della perdita. Un lasciar andare i solchi nella profondità della lastra e allo stesso tempo il cercare di dare forza -voce dovuta- alla visione, a quel silenzio spiazzante che cela le immagini negli sguardi o nelle fotografie.
Il distanziarsi dal mondo visibile –significativa l’assenza della figura umana- per un’intensificazione della veduta, che sia realistica, archeologica oppure astratta ma interessata alla radiografia delle zone infinitamente piccole attraverso la sublimazione teorica dell’informe, è, del resto, un tentativo di protezione dai pericoli dell’attesa e dall’irrompere dell’irrazionale: «Ora io suppongo il disegnatore calcografico evidentemente dotato dalla natura di tutta la buona disposizione per le arti imitatrici, e per assidua e ben regolata pratica giunto finalmente ad una giustezza d’occhio ed ubbidienza di mano irreprensibili. Ma egli è ben certo di conservarsi a lungo in quella linea media tra l’eccesso e il difetto, in che consiste il vero bello pittorico?» si chiedeva Giuseppe Longhi nel trattato del 1830 La calcografia propriamente detta: ossia L’arte d’incidere in rame. Nella pratica calcografica, che diventa giocoforza, più che in altre tecniche, tensione evolutiva e stilistica ancorata al flusso vitale dell’esperienza personale, vi è sempre il rischio, sublime, di un’Estetica dei visionari, ovvero di un ordine della creazione che si concentra maggiormente sulla fantasia per sublimare la banalità confusa della necessità. E’ facile percepire, pertanto, nelle grafiche dell’artista una diversa densità del mondo sensibile interpretato attraverso la luce e analizzato nella negazione delle sue forze vitali appunto perché non vi è accordo con la mano che incide. Questo sofisticato retrocedere nel proprio universo, nascondendosi nell’intenso “pieno” del tratteggio, non è che una regressione al grado zero della scrittura e un tentativo di apparente silenzio nell’eccesso dei segni.
I lavori, pertanto, non hanno nulla da dire appunto perché si sono spesi nell’ossessione di una ricerca e di un percorso –come quando Piranesi cercava un utopico emissario del lago di Albano-, e sembrano usciti quasi da un combattimento o una lotta, visioni martoriate di uno scenario mentale messo a nudo e che a noi comunicano esclusivamente gli effetti, negandoci la struttura e le cause. Occorre allora leggere le stampe come un percorso disegnato e il segno-tratto come la radiografia estetica del cuore. La ricerca di uno stile e, soprattutto, di una voce –e il Goya dei Capricci lo sapeva bene- non è in fondo che una battaglia, il tentativo di comprendere la parte più incerta e nascosta del proprio disegno e del proprio essere per confidarlo ad altri muti visionari: «Ogni percorso si compone anche delle nostre perdite e dei nostri rifiuti, delle nostre omissioni e dei nostri desideri insoddisfatti, di ciò che una volta abbiamo tralasciato o non abbiamo scelto o non abbiamo ottenuto, delle numerose possibilità che nella maggior parte dei casi non sono giunte a realizzarsi – tutte tranne una, alla fin fine -, delle nostre esitazioni e dei nostri sogni, dei progetti falliti e delle aspirazioni false o deboli, delle paure che ci hanno paralizzati, di ciò che abbiamo abbandonato e di ciò che ci ha abbandonati. Insomma, noi persone forse consistiamo tanto in ciò che siamo quanto in ciò che siamo stati, tanto in ciò che è verificabile e quantificabile e rammemorabile quanto in ciò che è più incerto, indeciso e sfumato, forse siamo fatti in ugual misura di ciò che è stato e di ciò che sarebbe potuto essere” avrebbe scritto Javier Marias in Mañana en la batalla piensa en mí. (Tommaso Evangelista).