La presentazione della mostra “Non aprire che all’oscuro” a cura di Flavio Brunetti è prevista mercoledì 13 gennaio 2016 alle ore 17,30 negli spazi della Galleria del Palazzo Gil in Via Gorizia a Campobasso. Oltre alla vernice per la stampa sarà presentato il catalogo/racconto dell’autore. Seguirà l’inaugurazione della mostra. Fino al 28 febbraio 2016 novanta immagini salvate dall’oblio, selezionate tra millecinquecento lastre fotografiche, restaurate e raccontate da Flavio Brunetti, prendono vita e riassumono la storia della comunità di Casacalenda (CB) tra il XIX e il XX secolo. Una mostra che non sarà statica ma arderà di percorsi multisensoriali che saranno illustrati dallo stesso autore, nel corso dell’incontro con gli organi di informazione.
“Prima di essere un titolo, “Non aprire che all’oscuro” è la raccomandazione incisa sul coperchio delle scatole delle antiche lastre fotografiche al bromuro d’argento. La storia ha inizio quando l’autore, in modo del tutto casuale, si imbatte in due casse, grandi come quelle utilizzate per trasportare le bottiglie di birra., ricolme di scatole di lastre fotografiche e gettate tra le cianfrusaglie di due trovarobe.
Fu amore a prima vista e immediata contrattazione dettata dall’istinto più che dalla ragione. L’ansia di scoprire l’esatta provenienza, il tempo, chi fosse stato il fotografo, culminano nelle fattezze e nell’umanità della società di una paese molisano (ma un paese varrebbe l’altro) nell’arco di tempo compreso tra la fine dell’800 e il 1933. Tutte le lastre, e questa è la fortuna, furono scattate dallo stesso fotografo, Mastrosanti, e da lui tutto il paese si recava ad immortalare la nascita, la crescita, la morte, la partenza per il fronte, il matrimonio, la ricerca del marito, la famiglia, etc. Su quei vetri diventa materia la nostra comunità di un secolo fa che rivive e ancora respira e ancora sogna. Quelle mille e cinquecento lastre documentano un Molise ancestrale quasi primitivo e ciascuna rappresenta una condizione esistenziale che nell’insieme si fa documentazione, storia collettiva e ‘stoffa del sogno’ delle generazioni dei nostri avi. E in quel mondo, che solo apparentemente sia passato e più non esista, la fotografia assume un potere divino, magico, sacrale, quello di ridare la vita, in una sorta di metempsicosi, alla bellezza e alla grazia.”
FLAVIO BRUNETTI NON APRIRE CHE ALL’OSCURO la vita, i sogni, la morte nel mistero della fotografia
Palazzo Gil – Via Gorizia Campobasso
13 gennaio – 28 febbraio 2016
Prossimamente : www.nonaprirechealloscuro.it
Flavio Brunetti
Flavio Brunetti è autore-interprete, colto e raffinato, di affabulazioni dotte e ricercate, proposte con incisività profana e popolana, grazie ad un’innata teatralità e ad una maschera espressiva, che lo rendono sorprendentemente unico.
Vince, come cantautore, l’edizione del ‘93 del Premio Città Di Recanati con la sua canzone Bambuascé, e incide negli anni successivi gli album TU TU TTÙ TU e FALLO A VAPORE (ediz. BMG – Musicultura – CNI) delle sue canzoni e APPLAUSE per la Flipper Music con musiche scritte insieme al Maestro L. Di Tullio.
Scrive e dirige numerose opere teatrali e musicali: STORIA DEL CLANDESTINO, su musiche di Di Tullio, LULLETTINO E LULL’AMORE – L’ANGELO MANCINO – UN VESTITO DI SILLABE E SUONI – VISIBILIA – FRUSTA LA’.
Notato da un autore e regista, attento e poco convenzionale, come Antonio Capuano, viene chiamato ad interpretare i film PIANESE NUNZIO e I VESUVIANI, nell’episodio Sofialorèn, il cui soggetto è ispirato a Capuano da “Il mito delle Sirene”, canzone di Brunetti che, dello stesso episodio, compone con L. Di Tullio anche la colonna sonora.
Nel film NON TI MUOVERE con Sergio Castellitto e Penelope Cruz è il location manager per le scene in Molise e interpreta la parte del becchino.
Flavio Brunetti è un abile e ricercato fotoreporter. I suoi reportage fotografici:
· “VISIBILIA” (pubblicato da Palladino Editore e Rivista Poetica “Altroverso”)
· “LA CADUTA DELL’AQUILA”
· “MOLISIADE … viaggio in nessun luogo”
· “TITLESS” e “L’ESSESE CHE NON È” mostre di fotografia e pittura con l’artista Antonio D’Attellis (catalogo Palladino Editore) hanno meritato esposizioni in Italia, negli Stati Uniti, in Brasile e in Ungheria.
Laureato in Ingegneria Civile Edile con il voto di 110/110, presso l’Università degli Studi Federico II di Napoli, ha collaborato, dal 1974 al 1977, al Corso di Disegno Civile del prof. Luigi Cosenza ed è stato per trentacinque anni docente ordinario di Topografia presso l’Istituto Tecnico per Geometri di Campobasso. Nell’esercizio della sua professione di Ingegnere ha organizzato recentemente i Simposi e i Convegni: “La città dei sogni perduti”, “La Scuola dei ragazzi scordati”, “Una città in vendita”, “Dal cielo sopra di noi”, “Conoscere il territorio per amare e proteggerlo” con la partecipazione del Prefetto Franco Gabrielli, “L’utopia del sogno” con la partecipazione di Giancarlo Cosenza. Di quest’ultimo convegno, tenutosi al Teatro Savoia di Campobasso, ha curato anche la pubblicazione del catalogo dallo stesso titolo. Suoi racconti e reportages fotografici sono consultabili sul sito parigino “altritaliani.net”.
NON APRIRE CHE ALL’OSCURO
Commento sul testo di Françoise Lamblin
Il testo Madre apre il racconto (circa 80p.) di Flavio Brunetti, intitolato Non aprire che all’oscuro, dedicato alla funzione essenziale della fotografia per l’autore, essendo lui stesso fotografo. Questa prima pagina è collocata al preciso momento in cui all’obitorio dell’ospedale l’autore va a fare visita per l’ultima volta a sua madre prima che la salma sia composta nella bara. È quindi un testo autobiografico nel quale l’autore descrive quello che vede in questo luogo di morte e evoca nello stesso tempo i ricordi che lo assalgono. Ci dà anche da sentire le parole che rivolge alla madre, un discorso rivelatore della loro relazione filiale profonda. Si tratta di evidenziare perché il testo coinvolga violentemente il lettore e perché, celebrando sua madre, l’autore riesca in qualche modo a superare la morte.
La prima parte sottolineerà il modo in cui la morte e la vita vengono descritte. La seconda sarà un’ analisi delle immagini della madre che ci propone l’autore. Infine vedremo se scrivendo, l’autore non riesce a immortalare l’immagine di sua madre e l’amore che nutre per lei.
I rappresentazioni della morte e della vita sono notevoli, contrastano e alternano fra di loro. Sin dall’inizio il lettore viene immediatamente colpito dalle prime due parole importantissime che introducono la pagina. La parola Madre è la prima, è il titolo della pagina, e la seconda è gli obitori. Quest’ultima è anche messa in rilievo perché inizia il testo stesso. Con queste due parole che si urtano il lettore comprende subito la situazione ed è per di più invitato al raccoglimento. Difatti ha appena letto il titolo polisemico del racconto Non aprire che all’oscuro, e sa dunque che sta per passare dalla luce all’oscuro. Anche il significato etimologico di obitorio, dal latino obire ‘andare verso’, ‘obire mortem’, rimanda al passaggio dalla vita alla morte. Il termine usato al plurale provoca una generalizzazione prolungata per l’intero primo paragrafo e permette di insistere su un fatto tipico delle nostre società moderne che evacuano la morte dalla vita sociale. La morte diventa anonima, anzi vergognosa, come lo conferma la costruzione impersonale [il corpo] prima che se lo portino via (l.6). L’autore rafforza la durezza di questa relegazione usando diversi procedimenti sintattici o lessicali: utilizza antonimi semplici, in basso/di sopra (l.1;2), frasi corte (soggetto-verbo essere-attributo), frasi ellittiche (soggetto-attributo) o anche ridotte a una sola parola. Questi procedimenti per descrivere gli obitori equivalgono a un atto di accusa contro questo costume sociale di fronte alla morte. La prima volta quando evoca la madre (l.8) e ogni volta in seguito( l.25-26; l.27) l’autore utilizza solamente frasi nominali che, con le loro ellissi, accentuano l’emozione trattenuta o anzi il dolore (l.29-30).
La ricchezza delle percezioni sensoriali esprime acutamente l’opposizione tra le immagini della morte e quelle della vita di cui l’autore si ricorda. Le sensazioni olfattive in riferimento alla morte sono di un realismo crudo e di una violenza estrema (l.5-6), quelle visive del mondo in bianco e nero della morte contrastano con lo scaturire variopinto dei colori della vita, simboleggiati attraverso la luce del sole, i frutti e i fiori (l.11-12). Però il termine nero non si legge in quanto stesso, è sostituito con una perifrasi che aggiunge al colore nero connotazioni più infauste: l’uomo corvo. La perifrasi è ripresa cinque volte e sottolinea l’anonimato del artigiano della morte, suggerendo che è di cattivo augurio e lascia incombere una minaccia malefica. Non si legge neanche il termine bianco, è solamente indicata la lastra di marmo, ripresa sei volte, anch’ esse ricca di connotazioni. Suggerisce associazioni con il senso del tatto, il freddo, con l’immobilità, la rigidità della pietra: è già una lastra tombale. La vita invece è rappresentata mediante verbi di movimento, camminava, saltare (l.13;14) e con i colori vivi della natura. In questo contesto il bianco che si vede è un bianco vivo, quello della neve luccicante.
Abbiamo segnato sopra l’uso di numerosi frasi dalla costruzione apparentemente semplice, la struttura narrativa del testo però si rivela più complessa. Passaggi descrittivi si alternano con passaggi di dialoghi e producono un’ alternanza di tempi verbali significativa. L’imperfetto è legato ai ricordi della vita (l. 11-14; l.20-21; l.26-27.l.34-35) mentre il passato prossimo è riservato al discorso diretto e familiare che l’autore rivolge a sua madre. In quanto riguarda il futuro, appartiene esclusivamente a l’uomo corvo, è quello della separazione imminente, ineluttabile, è un futuro talmente prossimo che si trova pure due volte accostato all’ avverbio ora: ora verrà (l.14), ora sarà (l.36).
La parola Madre echeggia sull’intera pagina, le sue quindici occorrenze dicono palesemente la sua importanza. Quale immagini di sua madre, della Madre, l’autore riesce quindi a darci?
Dapprima la madre, fonte della vita, è la madre dell’autore. Apparve come una madre tutelare, garante della sua educazione, che ha soprattutto saputo trasmettergli calore e tenerezza. Un esempio: l’enumerazione dei verbi al imperfetto in seconda persona (l.34-35) provoca una serie di assonanze significative, si sente la voce della madre rimproverando il bambino, il vocale i ne riproduce gli accenti d’ira. Poi, alla fine della frase, viene il verbo dormire, l’unico che si chiuda con un vocale meno acuto, la e, esprimendo la quiete ritrovata.
Alla madre vengono inoltre attribuite molteplici qualità seducenti che dimostrano di volta in volta la sua grazia sorridente, la sua sensualità (l.11-12), la sua modestia (l.22), la sua tenerezza (l.35).
Sono degli immagini forte che ci la fanno vedere come la madre nutrice, l’alma mater che fa tutt’ uno con la natura nella quale si fonde. Entra in contatto diretto con gli elementi: con la terra, cammina scalza (l.13); con l’aria, saltando; con l’acqua sotto forma di neve; con il fuoco rappresentato dal sole. È anche un’incarnazione della bellezza (l. 32) e l’aggettivo bello ricorre cinque volte. Ma su questo punto torneremo sotto.
Si potrebbe andare più avanti, è come se l’autore procedesse a una specie di deificazione. La madre si metamorfosa in una figura di dea-Madre. In effetti la parola Madre apre e chiude la pagina e ricorre spesso con la maiuscola laudativa. Risalta particolarmente perché è collocata in principio di proposizione, Madre è un’ anafora che scandisce l’intera pagina, che le dà una musicalità innegabile.
Il vocativo ha dunque il valore di un’incantesimo, di un invocazione. È come se l’autore si rivolgesse a un nume, a una divinità. Non sappiamo se si tratta di una preghiera alla dea-Madre o piuttosto alla Madonna della religione cattolica. Diverse interpretazioni sono senz’altra possibili secondo le connotazioni, ma la venerazione dell’autore non lascia nessun dubbio e la madre prende una dimensione universale.
Anafore, assonanze, immagini forti sono procedimenti tipici della scrittura poetica. Permettono di risentire e di leggere la pagina come si legge una pagina di prosa lirica.
Così si spiega perché la primissima immagine concreta che l’autore ci dà di sua madre coinvolga talmente il lettore. Due frasi nominali conseguenti, della stessa lunghezza, come se si trattasse delle due emistichi di un falso alessandrino, restituiscono la fragilità di questo essere oramai senza difesa:
Madre sulla lastra di marmo. Madre non ancora vestita..
Da questo momento in poi abbiamo l’impressione che i ruoli sono invertiti. È il figlio che diventa materno, che rassicura la madre. Si esprime in discorso diretto (l. 8;16) usa due volte la congiunzione di causa perché (l.10;11) per spiegarle i propri gesti come si fa con un bambino, utilizza allora il tono familiare della tenerezza affettuosa. Peraltro l’espressione l’uomo corvo non è solamente una metafora della morte, potrebbe rappresentare nello stesso tempo una figura che spaventa i bambini. È ripresa cinque volte come se l’autore volesse scongiurare questa presenza malefica. L’autore precisa due volte è venuto con me, perché la madre non si spaventi. L’atteggiamento affettuoso e materno culmina ancora nell’ ultimissima domanda che le rivolge e che potrebbe anch’ esse rivolgersi a un bambino:
Madre, hai freddo sulla lastra di marmo?
Anche se il contesto non è lo stesso ci si ricorda la metrica e il tono materno adoperato da Rimbaud al verso 11 del sonetto Le Dormeur du val:
Nature, berce-le chaudement: il a froid.
Si vede dunque che mediante incantazioni ripetute, nel preciso momento in cui dice la morte di sua madre, l’autore entra un ultima volta in contatto diretto con lei. Verso la fine (l. 29) si trova l’unica occorrenza della parola madre scritta senza maiuscola e con il possessivo personale, traducendo il suo turbamento la sua tenerezza, il suo dolore, con estrema decenza. La morte non impedisce loro di rimanere tutte e due nella stessa comunità spirituale. Il suo elogio gli permette di rivolgersi a lei malgrado la morte, di comunicare con lei aldilà della morte, di oltrepassare la morte, di trascenderla.
Un altro legame intimo e privilegiato sopravviverà tra loro aldilà della morte, si tratta della bellezza. Già scegliendo i vestiti per agghindarla è sollecito di portarle i più belli (l. 9;16). È preoccupato di piacerle, di farla bella. Poi alla fine pronuncia un’affermazione veemente, rifiutando di vedere nell’impiegato dell’obitorio altro che un funzionario secondario: Solo io conosco la tua bellezza, l’uomo corvo, no!
L’officiante anonimo, quindi la morte, non avrà ragione della bellezza. A lui, al figlio, al fotografo, allo scrittore spetterà il ruolo di dire, di resuscitare, di rivelare la bellezza di sua madre, se ne fa garante. Anche grazie alla bellezza potrà trascendere la morte.
Questo testo autobiografico dagli accenti lirici, dipingendo la morte con emozioni e immagini forti si presenta come l’ultima offerta del figlio a sua madre. Lo scrittore, lodando la madre, le rende omaggio con una pagina di prosa poetica che perpetua il suo ricordo e immortala la sua bellezza come verrà confermato nel testo che segue quest’esordio.
Françoise Lamblin
francoise.lamblin@ennamane.net