Intervista al cantautore che venerdì sarà in Molise per la serata di chiusura del festival “Jazz in Campo – Jazz in Galdo”
Arriva in Molise in un momento di grande attività, del resto come sempre nella sua incredibile carriera segnata da decenni di successi. Sergio Caputo, che venerdì sera con il suo quartetto sarà a San Giovanni in Galdo per il concerto di chiusura di “Jazz in Galdo”, festeggia in queste settimane i 35 anni del suo album più importante, “Un sabato italiano”, disco che fa parte a pieno titolo della storia della musica italiana. Di nuovo ha appena pubblicato un altro cd, “Oggetti smarriti” e sta portando avanti un fortunato tour estivo mentre si prepara per una serie di concerti nei club a partire dal prossimo autunno (a settembre tornerà con un doppio set anche al prestigioso Blue Note di Milano).
A poche ore dalla sua attesissima esibizione a San Giovanni in Galdo, Caputo anticipa come sarà il suo spettacolo, parla del nuovo disco e torna con la memoria a episodi curiosi che lo legano al Molise.
Partiamo proprio dal Molise. È un posto che conosci o sei tra quelli per i quali è una regione che ‘non esiste’?
Esiste eccome. Io a Roma abitavo al quartiere Prati di fronte a un ristorante che si chiamava “King dei molisani”, che purtroppo ha chiuso e oggi non c’è più. Quel locale era un punto di riferimento non solo per me, ma anche per tanti altri artisti che gravitavano nella zona attorno alla Rai. Ora a parte la cultura gastronomica, che ho conosciuto ed è notevole e non poco importante visto che oggi la gente ha scoperto il piacere della buona cucina regionale, devo dire che per me il Molise è sempre stato un posto con una sua personalità, una sua precisa identità. Ho girato molto per lavoro quindi, ovviamente, ho conosciuto tantissimi posti di tutta Italia e in Molise sono sempre venuto volentieri. Diciamo che non si viene molto da voi perché non ci sono tante iniziative che vengono portate avanti, però quando si presenta l’occasione io ci sono.
Per tanti tuoi appassionati molisani resta memorabile un concerto di una quindicina di anni fa.
Anche per me! Vivevo negli Stati Uniti, quando abbiamo suonato a Campobasso. Avevo il volo per tornare in America prenotato cinque ore dopo la fine del concerto, quindi c’era solo il tempo di scendere dal palco, salire in macchina e correre a Fiumicino. Fu una corsa sul filo del rasoio.
Venerdì avrai il compito di chiudere il festival “Jazz in Campo – Jazz in Galdo” ed è curioso il fatto che ad aprire il festival sia stato invece un tuo grande amico, Carlo Massarini. Fu lui a lanciarti in televisione trasmettendo per primo i tuoi video a ‘Mister Fantasy’.
Carlo è un caro amico e ha un grande bagaglio musicale. Quel programma poi era fatto da una squadra fortissima coordinata da Paolo Giacci, un team che resterà irripetibile nella storia della tv ed è paragonabile solo a quello di Arbore e Boncompagni. Sorprendente e straordinario è anche il fatto che Carlo sia sempre riuscito a rinnovarsi e anche a tirar fuori altri talenti, come ad esempio la fotografia.
Con te porti un disco nuovo, appena pubblicato. Si chiama “Oggetti Smarriti”, ci sono tue vecchie canzoni e alcuni inediti, ma non è un ‘the best’.
Esatto, è un ‘anti-best’. Io volevo innanzitutto rivalorizzare alcuni brani che erano rimasti un po’ indietro nella conoscenza del grande pubblico e spiego perché: attualmente ho un pubblico piuttosto misto che va dai 16 ai 55 anni e quelli che sono venuti dopo, i più giovani, sono quelli che non hanno comprato gli album interi, ma le compilation delle case discografiche, del resto ne fanno uscire due al mese! Sulle compilation vanno sempre i soliti brani che erano i singoli dei vari anni, mentre gli album, quando si facevano, erano opere che avevano una loro rotondità, una complessità che sicuramente non era mai rappresentata solo dal singolo, era un lavoro di insieme che da un brano all’altro ti portava a fare un viaggio. Per questo molti brani anche di valore sono rimasti sconosciuti ai più. Sono canzoni che io faccio molto volentieri, ma che in un concerto normale non vengono eseguite perché il pubblico vuole sentire tutti i miei pezzi più conosciuti e quindi giustamente non posso non fare il ‘Garibaldi’ o ‘l’Astronave’ e gli altri. Questo è stato il primo criterio di scelta, l’altro criterio è stato invece la ‘suonabilità’ con una sola chitarra acustica o comunque in una veste unplugged delle canzoni. Posso già preannunciare che certamente ci sarà un volume due di questo disco perché è un lavoro che è stato da subito molto amato dal pubblico e io stesso devo dire che ho scoperto delle sfumature di certi brani che quando li ho scritti e sono stati arrangiati in un certo modo, non avevo notato.
Il singolo del disco è “Scrivimi scrivimi”, con un video tutto fatto in rete. Si può definire una canzone ‘social’?
Certo. È un brano nato di getto ed è nato proprio su questa linea della nostra presenza sui social e anche degli scompensi che ciò può generare perché noi quando siamo sui social parliamo con persone delle quali spesso non sappiamo nulla, c’è anche chi si innamora e nascono delle storie tra persone che non si conoscono. Poi ci sono persone che potrebbero avere una faccia che non è quella che mostrano in rete o essere anche pericolose. Sui social ho conosciuto due o tre persone di grande valore umano così come ho trovato anche molte persone che da simpatiche poi, per piccole cose, si sono trasformate in nemici acerrimi. Sui social c’è ansia, qualcuno con me si è lamentato perché dopo tre ore non gli avevo ancora risposto.
Hai detto che dal vivo non puoi non fare tutti i tuoi pezzi più conosciuti, ma hai anche l’esigenza di fare le tue canzoni nuove. Come fai a conciliare questi due aspetti quando devi comporre la scaletta?
È molto difficile. Alla fine ogni tanto butto dentro delle cose che non c’erano prima, ma non posso toglierne molte altre. Il concerto è un po’ come un film, la scaletta deve essere fatta per prendere lo spettatore e portarlo a sentire certe emozioni. E poi non puoi lasciarlo a metà di questo viaggio. Devi farlo tornare a casa con la felicità dentro per aver partecipato: è molto complicato. A questo si aggiunge il fatto che ogni volta che voglio inserire un brano non posso rifare tutte le prove con la band perché diventa un’impresa. Ci sono dei pezzi che abbiamo provato ma che non facciamo mai, altri pezzi che non abbiamo provato e che ogni tanto mettiamo comunque nello show e infine c’è sempre la possibilità di inserire qualcosa nel mio unplugged personale perché io a un certo punto del concerto do sempre la possibilità alla band di prendere un attimo di break e faccio intanto due o tre cose da solo.
Così, dunque, anche venerdì a San Giovanni in Galdo?
Certo e mi raccomando venite!
(intervista realizzata da Enzo Luongo)