“Venti anni fa scrissi la prefazione di un precedente libro di Giampiero Castellotti, dedicato ad un paesino del Molise, in cui io per avventura avevo passato il terribile inverno ’43-’44, con il fronte bellico fermo a Cassino che rendeva nulla ogni prospettiva di raccordo con Roma. Era un libro di comune parallelo ricordo di quel particolare ‘luogo’, molto prima che scoppiasse la moda della contrapposizione fra spazi e luoghi; e il Molise, nel sangue di Castellotti e nel ricordo della mia adolescenza, risultava per tutti e due il luogo per antonomasia, oggetto privilegiato della nostalgia”.
Così scrive Giuseppe De Rita, tra i più stimati sociologi italiani, presidente del Censis e “firma” del Corriere della Sera, nella prefazione al libro “Piazze in piazza”, ultima fatica letteraria del giornalista Giampiero Castellotti, in uscita in questi giorni.
Il libro, in trenta capitoli, traccia la storia sociale delle piazze italiane, contenitori di umanità per eccellenza, bacini dell’evoluzione della nostra civiltà occidentale, spazi in cui per secoli si sono confrontati poteri e contropoteri. “Mi ritrovo a distanza di tempo a leggere un libro, l’attuale, che è anch’esso tutto centrato sulla nostalgia del luogo: ma questa volta il luogo non è un molisano borgo selvaggio (e civilizzato insieme), ma la piazza, cioè lo spazio che storicamente ha garantito l’espressione del nostro sentire collettivo: nelle relazioni personali, nella gestione del potere, nell’impegno politico, nelle emozioni di massa, nella rivolta delle sacche di marginalità – scrive De Rita nel suo articolato intervento. “Fa bene Castellotti a cantare, con non tacita nostalgia, l’epica potenza della piazza. Perché è nella piazza che si è fatta gran parte della storia dei popoli, dalla civiltà greca alle primavere arabe degli scorsi anni. Ma specialmente perché l’Italia è un Paese che si riconosce nelle proprie piazze, sia per i moti popolari che le percorrono ed occupano come per la volontà di regolare le istituzioni facendo riferimento alla loro eleganza architettonica. E giustamente l’autore, citando Bobbio, ricorda che lo stesso nostro linguaggio è ricco di riferimenti alla piazza (mettere in piazza, scendere in piazza, movimenti di piazza, fare piazza pulita, contrapporre la piazza) quasi a certificare che la nostra storia è fatta di una dialettica fra potere e contropotere giuocata sui territori urbani”.
Il sociologo, con padre molisano di Venafro e madre ciociara, ha trascorso una lunga fase della guerra a Frosolone, dove una sorella della madre aveva sposato un preside originario del paese molisano. Una fase, come lui stesso ha sottolineato in più occasioni, che lo ha influenzato per il futuro, dall’amore per la montagna (il sociologo trascorre le estati in Valle d’Aosta) all’adozione del rigore, tipico del popolo molisano.
Nel precedente libro, “Un paese racconta”, De Rita ricorda l’anno a Frosolone come “il più significativo della sua vita”, un inverno “con un gelo rigido che non ho mai più conosciuto”, i ricordi drammatici come “le sventagliate di mitra della motocarrozzetta tedesca che abbandonava la postazione, uccidendo un poveruomo per la strada e sforacchiando i vetri delle case” (compreso quello della sua stanza). Ammette: “Non ci sono più tornato. Credo di non aver voluto, tante sono le volte che sono passato lì vicino, le volte che sono andato oltre i cartelli per le deviazioni. Non sopporterei i cambiamenti, che mi dicono molti e significativi. I loci della memoria è giusto che rimangano fissi nel cuore, immutabili per come li si è vissuti. Irrazionalmente preferisco tenermi i ricordi, senza prender atto del cambiamento”.
De Rita rievoca il “suo” Molise nell’ultimo libro di Castellotti
Commenti Facebook