Spulciando i fatti di cronaca, spesso vengono in rilievo episodi nei quali, grazie al posizionamento di telecamere, si ottengono immagini utili all’individuazione di persone che si trovavano in un certo luogo in determinati momenti, e non di rado si giunge addirittura al riconoscimento di soggetti che hanno commesso reati. Sin qui, tali notizie sono di certo positive, ma il tema, sotto il profilo giuridico assai interessante, presente molte sfaccettature, ed in particolare sorgono dubbi circa la incisione di tali impianti sulla privacy dei cittadini, a causa della tumultuosa crescita della installazione di videocamere in diversi luoghi.
Oggi vogliamo trattare un argomento collegato, vale a dire cosa accade quando un nostro vicino di casa installa una telecamera alla scopo, magari esplicitato, di difendere la sua proprietà, ma il posizionamento dell’apparecchio fa sì che si abbracci un campo visivo che comprenda anche la nostra proprietà, in tutto o in parte.In tali casi, viene in rilievo l’art. 615 bis del codice penale, il quale punisce chiunque, mediante l’uso di strumenti di ripresa visiva o sonora, si procura indebitamente notizie o immagini attinenti alla vita privata, con la reclusione da sei mesi a quattro anni.
La norma è collocata sistematicamente tra i delitti contro la libertà individuale, ed in particolare tra quelli contro la inviolabilità del domicilio, tanto che in essa si fa riferimento al precedente articolo 614 (che prevede, invece, il reato di violazione di domicilio), per sancire la punibilità del comportamento descritto qualora ci si procuri immagini di vita privata svolgentesi nelle abitazioni altrui, o in luoghi di privata dimora, o nelle appartenenze di essi.Il reato è stato introdotto nel nostro ordinamento da alcuni anni , in seguito all’entrata in vigore di una legge speciale redatta sotto la spinta di diversi studiosi di dottrina penalistica, i quali invocavano una pregnante tutela della riservatezza personale dei cittadini in un periodo in cui era diventato assai agevole, anche sul piano economico, procurarsi mezzi di captazione sonora e/o visiva, sicchè urgeva, a loro dire, garantire una incisiva tutela della privacy.
Come in molti casi accade, la formulazione letterale della norma ha destato alcune perplessità, poiché, come è noto, in diritto penale vige il fondamentale principio di legalità, secondo il quale ciò che la legge non proibisce , è lecito, sicchè molti hanno stigmatizzato il fatto che l’articolo in questione punisca la captazione di notizie o immagini private solo mediante l’uso di strumenti di ripresa visiva o sonora, e dunque sono esclusi altri comportamenti, quali ad esempio captazioni di notizie mediante pedinamenti, appostamenti ed altro, che non comportano l’uso di tali strumenti tecnologici.
In effetti si tratta di una stortura, poiché la tutela della privacy andrebbe apprestata anche quando il “guardone” non si avvale di telecamere o registratori, e dunque si tratta senz’altro di un vuoto normativo che andrebbe colmato.Secondo altri, ancora, sarebbe stato opportuno non limitare la punibilità alle riprese di immagini colte all’interno delle abitazioni o nelle immediate vicinanze di esse, poiché possono ben verificarsi casi in cui la ripresa indebita sia altrettanto lesiva della riservatezza di un cittadino anche quando è riferita ad episodi che si svolgono all’esterno o lontano dalle abitazioni.
Tuttavia, anche con tali limiti, il 615 bis appare di discreta portata, ed anche di applicazione piuttosto semplice, per cui nella pratica sono diversi i processi instaurati per la sua violazione.In particolare, il secondo comma punisce anche, con le stesse pene, chi rivela o diffonde, mediante qualsiasi mezzo di informazione al pubblico, le notizie o le immagini ottenute.Qui, viene in rilievo immediatamente il caso delle immagini “postate” sui social networks e in generale su internet. Occhio quindi all’utilizzo di tali strumenti, perché, come si vede, se le immagini sono relative a vita privata ed il protagonista, magari involontario, non dovesse gradire la loro pubblicazione, quest’ultimo potrebbe agevolmente presentare una querela contro l’autore della divulgazione.Questo, viene da pensare è un dato di fatto assai rilevante nella società di oggi, atteso il notevolissimo uso che, specialmente i giovani, fanno di “twitter”, “facebook” ed altro.Infine, le pubblicazioni, qualora abbiano le stesse caratteristiche innanzi indicate, ma provengano da pubblici ufficiali o incaricati di pubblici servizi con abuso dei poteri esercitati da questi, le pene sono aumentate ed il fatto non è più perseguibile a querela, ma d’ufficio.
Avv. Stefano Sabatini