di Stefano Manocchio
Quando si deve ragionare su come impostare una serie di interviste da inserire in una rubrica la prima domanda che viene spontanea al bravo giornalista (come direbbe Renzo Arbore) è: “da chi inizio?”. Il dubbio è stato ricorrente prima di decidere su questa rubrica ‘Time Out’ e alla fine ho fatto una scelta niente affatto salomonica, ma dettata dall’emozione ed ho optato per il giocatore-simbolo del basket a Campobasso, quello che in sostanza mi ha permesso di passare da giovane appassionato dello sport e praticante a tempo perso a giovane promessa (mancata) di una disciplina che poi mi sarebbe entrata nel cuore…il tutto solo guardandolo giocare.
Stefano Pizzirani, classe 1950, è stato un giocatore che nei due anni trascorsi a difendere i colori rossoblù ha fatto ‘lievitare’ la passione della città per la palla a spicchi, una sorta di icona della provincia meridionale. Nella NBA si diceva che i Chicago Bulls nei momenti difficili seguissero uno schema tattico semplice “palla a Michael Jordan e lasciate fare a lui…”: è esattamente quello che ho visto fare più volte, in piccolo, nella palestra dell’Itis e poi al Palavazzieri dal playmaker arrivato da Chieti. Pizzirani guardava gli avversari e semplicemente entrava in area palleggiando, trovando il modo di fare canestro in una maniera o nell’altra. Ci sono state azioni in cui ha giocato 1 contro 5..vincendo. Era di una categoria superiore e si vedeva.
Dopo questa lunga premessa veniamo all’intervista. All’inizio alcuni numeri. Ha giocato 11 anni a Chieti, nella ‘celebre’, Rodrigo, dalla serie C alla A; ha iniziato nelle giovanili della Virtus Bologna, arrivando a vincere il titolo di campione nazionale allievi, nel 1966: è stato il primo titolo nazionale per le celebri V nere (“capitano e miglior marcatore” dice con orgoglio).
Facciamo qualche nome: chi ricorda dei personaggi del basket campobassano di quel periodo?
“ La lista sarebbe lunga, ad iniziare dai fratelli Di Vico a Carlo Antonelli e Antonio Varrone e molti altri; ma è della città che ho un ricordo indelebile. Sono arrivato a Campobasso che si giocava in una palestra della scuola con 20 spettatori e sono andato via con il Palavazzieri pieno. Eravamo in serie D, passammo alla C2, vincendo e in C1 arrivò il compianto Ugo Storto come allenatore e poi Sergio Contini, che voleva giocatori a tempo pieno mentre io mi allenavo in settimana da solo e venivo a Campobasso due giorni prima della partita. Quindi, non potendo garantire quell’impegno, andai via. Tra i giocatori non saprei chi nominare prima: Enzo Melillo (è il mio presidente a Chieti), Bianchini, Pagliusco ed altri ancora. Lo ripeto: il clima sportivo a Campobasso mi ha affascinato. Avevo difficoltà ad uscire in strada perché tutti mi fermavano e c’era chi chiedeva l’autografo ed era tutto molto bello. Negli anni 1989/90 ho ‘rischiato’ di tornare, quando dopo un colloquio con Di Vico uscì la proposta di fungere da allenatore, ma per problemi personali ho dovuto rinunciare ed ho segnalato Bocci’”
Lei continua ad allenare: perché non vivere ‘la pensione’ come tutti gli altri?
“Il basket è una valvola di sfogo e mi ha dato tanto e sono continuamente impegnato ad allenare; la squadra di basket femminile (Magic Chieti, ndr) è iscritta in C, con la pandemia abbiamo dovuto rinunciare alla B.
Uno dei prossimi ad essere intervistato sarà Castorina, che lei ha conosciuto bene
“Renato è una persona eccezionale; sono stato suo assistente a Chieti. E’ molto serio e bravissimo ad allenare e avrebbe dovuto raccogliere più di quello che avuto”.
Ci siamo lasciati con Pizzirani con l’accordo di risentirci prima o poi; le strade tra Abruzzo e Molise non sono poi così distanti.
Ringrazio la sezione molisana dell’Associazione Nazionale Stelle e Palme al Merito Sportivo che, nella persona di Michele Falcione, mi sta dando un grande aiuto nel contattare i personaggi che poi andrò ad intervistare.