di Stefano Manocchio
In questa serie d’interviste ci sono due tipologie di eventi da considerare: il periodo della serie B, che è stato lo zenith per il movimento cestistico maschile campobassano e la fase precedente che ne ha creato le premesse, a partire dalla partecipazione al campionato di serie D. Sandro Sardelli (mi permetto il diminutivo nel nome conoscendolo da sempre), come il resto della dirigenza, ha vissuto entrambe le fasi fino all’epilogo della cessione del titolo al Pozzuoli.
Come è iniziata questa bella avventura nel mondo della pallacanestro campobassana?
“Tutto è iniziato con la serie D allenata dal compianto Ugo Storto; si giocava nella palestra dell’Itis, perché il Palavazzieri non aveva un custode, o almeno quella fu allora la motivazione ufficiale. L’indimenticato amico Carlo Antonelli insegnava in quell’istituto scolastico e si era battuto per far mettere il parquet, peraltro molto bello, al posto del linoleum che c’era stato fino ad allora ed era quello al momento l’unico campo utile, anche se di fatto era una palestra adattata per l’occasione. Vincemmo il campionato ed il secondo anno ci fu il trasferimento al Palavazzieri – continua Sardelli – che comportò un notevole sforzo fisico da parte di tutti noi per renderlo omologabile. Ricordo a tal proposito una nottata intera per cancellare le strisce sulla pavimentazione, che erano differenti da quelle del campo da basket omologabile e realizzare quelle nuove, che dovevano essere tracciate sul linoleum. Litri e litri di acqua raggia, che in parte ci furono donati da Tirabasso, che aveva un negozio di cornici. Era l’epoca pionieristica e tutti fummo chiamati a sacrificarci per permettere alla squadra di affrontare campionati prestigiosi. Fu possibile anche perché, subito dopo la vittoria nel campionato regionale di Promozione, sfruttammo una nuova legge regionale che concedeva contributi alle società sportive e quella somma ricevuta ci servì per partire. Dal punto di vista tecnico – dice ancora Sardelli – la scelta vincente fu quella di portare a Campobasso Stefano Pizzirani, che era di un livello tecnico assolutamente superiore e con lui Ugo Storto, che riuscì anche a creare un fenomeno di comunicazione importante intorno al basket, che allora era conosciuto da pochi”.
A proposito di Pizzirani, ad un certo punto si parlò di un suo ritorno a Campobasso, ma evidentemente non se ne fece più nulla
“Eravamo arrivati quasi a livello professionistico e serviva un impegno totale per tutti i giorni; lui veniva nel fine settimana per giocare la partita e fino alla C2 era di un livello tecnico superiore, poteva certamente permetterselo perché in campo era determinante. Lasciami dire che dopo molti anni l’ho rivisto ed è stato bello incontrarci”.
In queste interviste è emerso chiaro come la società abbia favorito fortemente il successo della squadra dando un’immagine di affidabilità
“Eravamo un gruppo di amici e il basket era diventato per noi un modo di vivere che ci coinvolgeva dal lunedì alla domenica; era il nostro hobby principale. Sono stati per noi probabilmente gli anni più belli; eravamo sempre insieme e tutti hanno un bel ricordo di quei tempi. Siamo rimasti amici e ancora ci incontriamo. La nostra era una società corretta, gli stipendi venivano pagati regolarmente e tutti volevano venire a Campobasso; avevamo contatti con altre società, comprese quelle importanti ed è stato tutto molto bello”.
Anche l’ambiente circostante ha contribuito a creare il clima giusto per il successo
“All’inizio i giocatori non erano attenzionati dalla gente; ma Storto, con tutti i suoi limiti sapeva come trattare le persone, era amico di tutti e divenne promotore del basket in città e tutto il gruppo risultava simpatico. Fondamentale fu anche l’integrazione con il calcio, tra i giocatori e le due tifoserie ed eravamo tutti amici. Allenatore e giocatori si sono integrati moltissimo con l’ambiente e a volte neanche ritornavano a casa la domenica, preferendo rimanere in città a Campobasso. Con loro non ci sono stati mai problemi; l’ambiente era accogliente e loro si sono comportati sempre bene e sono diventati dei personaggi”.
Vogliamo citare qualche episodio?
“Ce ne sono tanti, non saprei da dove iniziare. Quando abbiamo vinto la C1 durante la partita decisiva ero fuori il Palazzetto all’altezza della chiesa Mater Ecclesiae, con Carlo Antonelli e all’improvviso sentimmo il boato del pubblico e capimmo che era fatta; poi ho rivisto la registrazione ed è stato esaltante. E ancora: per fare la squadra e riportare a Campobasso giocatori che già avevamo conosciuto passammo una notte intera con l’ing. De Cesare, che era uno che contava alla Rodrigo Chieti e alla fine riuscimmo nell’intento. Potrei parlare anche delle lettere raccomandate con i cartellini dei giocatori spedite a mezzanotte, in zona Cesarini. Fare la squadra era stressante ma bello e divertente”.
Poi l’epilogo e la cessione del titolo
“Il Palazzetto era insufficiente nonostante i lavori per ampliarne la capienza e si cercò di fare quello nuovo, ma l’operazione fallì per difficoltà economiche e politiche; a quel punto non eravamo più in grado di tenere e garantire quel livello”
Può tornare il grande basket maschile a Campobasso?
“Si devono creare le circostanze, come è avvenuto per la femminile; ad un certo punto ci avevamo riprovato, ma i costi erano diventati altissimi e ora siamo avanti con l’età e almeno per noi non sarebbe possibile. Al momento non c’è una società-guida e non ci sono fatti che facciano pensare ad una riproposizione di quei tempi”.
Anche questa volta si è aperta la mente ai ricordi e di questo voglio ringraziare Sandro Saredelli.
Ringrazio il Comitato Regionale del Molise dell’Associazione Nazionale Stelle e Palme al Merito Sportivo che, nella persona di Michele Falcione, mi sta dando un grande aiuto nel contattare i personaggi che poi andrò ad intervistare.