di Stefano Manocchio
Quando è stata preparata la scaletta delle interviste di questa rubrica di ricordi del grande basket a Campobasso negli anni d’oro, sapevo già che questa sarebbe stata una emotivamente ‘difficile’ perché si sarebbe dovuto improntarla su una figura importante per il movimento cestistico di allora e che purtroppo non c’è più ed ha lasciato un vuoto enorme nello sport locale per la sua passione e simpatia: il compianto presidente Francesco ( ma per tutti Franco) Di Placido. Per noi che allora eravamo giovani giocatori, appassionati di questo sport bellissimo (e ci aggiungo per quanto mi riguarda anche il ruolo di cronista agli esordi), Di Placido era semplicemente ‘il Presidente’ perché riassumeva, con la sua passione, i tipi dell’entusiasmo ‘avvolgente’ della città verso i protagonisti del miracolo sportivo di quegli anni.
Il ‘narratore’ della figura importante del presidente nell’intervista che segue è stato il figlio, Mimmo, a cui mi lega la passione per lo sport e la pratica, viste le tante partite giocate militando nella stessa squadra cestistica. Bisogna dire che Franco Di Placido ha avuto un trascorso dirigenziale anche nel calcio, come tesoriere del Campobasso ai tempi della presidenza del compianto Gigino Falcione; ma il basket è stato per lui ‘altro’, anni di vita dedicati alla squadra e alla società, tra gloria e, alla fine, anche qualche delusione.
Come potremmo sintetizzare quegli anni per tuo padre?
“Lui ha lasciato un segno indelebile nel basket campobassano, portandolo in B d’Eccellenza, un traguardo che sembrava impossibile, coinvolgendo tanta gente e creando un fenomeno testimoniato da un Palavazzieri stracolmo di gente. Non dimentichiamoci che si viveva senza tecnologia, eravamo abituati alla palestra dell’Itis con le magie di Pizzirani e prima ancora al campetto all’aperto dello ‘Sturzo’, dove in inverno prima di giocare si doveva spalare la neve. Era un mondo diverso, improvvisamente proiettato nello sport professionistico”.
Come si sono create le premesse per il suo impegno nel basket?
“Sembra incredibile, ma è successo all’improvviso e neanche io ne ero stato informato; ero a Roma all’università e mi venne detto che mio padre aveva deciso di diventare presidente della squadra di basket. Rimasi meravigliato, perché in famiglia era quello meno interessato a questo sport e non era mai venuto a vedermi giocare, anche per gli impegni professionali; invece poi la trasformazione, fino a diventare non solo presidente ma anche primo tifoso della squadra. Credo che abbia giocato un ruolo importante soprattutto l’amicizia con Sergio Di Vico, ma anche suo fratello Luciano e Antonio Varrone, il compianto Carlo Antonelli e Sandro Sardelli e che furono loro a coinvolgerlo nel discorso. Io rimasi di stucco. Si è appassionato al basket in maniera viscerale, non ha perso una partita ed in trasferta andava quasi sempre con il pullman della squadra. In famiglia aveva coinvolto tutti, compreso mio nonno che allora aveva già circa ottant’anni e non mancava mai alle partite. Aveva poi un rapporto di fiducia nei confronti di chi conosceva lo sport, i giocatori e i loro procuratori e quindi si fidava ciecamente della dirigenza. Dedicava alla squadra anche una parte delle ferie e una volta i giocatori vennero tutti nella casa al mare a Termoli. Era coinvolto con tutti e teneva alle sorti di ognuno”.
Qualche episodio che ti piace ricordare?
“Gli episodi che lo riguardano sono legati anche ai miei ricordi del basket di allora. Ti racconterò quelli. Quando andammo a giocare a Mestre io e Pastorello partimmo il giorno prima con l’automobile di papà (una Lancia Thema i.e. turbo, ndr) e andammo a giocare al casinò di Venezia; lui con i giocatori aveva un rapporto di stima particolare, ma con Pastorello più che con gli altri e gli perdonò il gesto, perché a lui perdonava tutto. Ancora un ricordo personale: la squadra era impegnata in trasferta a Modena e io ero a sciare a Kitzbühel per la settimana bianca e anticipai il rientro per assistere alla partita; ad un certo punto il solito Pastorello fece una prodezza facendo canestro in sottomano e io urlai tanto da svenire, probabilmente anche a causa del ‘trapazzo’ per il viaggio.
Ci sono stati anche i momenti brutti e le delusioni
“La fase calante l’ha vissuta male, perché è rimasto solo al timone; avrebbe voluto veder realizzata per la città una struttura degna di quei campionati. Il Palavazzieri era una palestra in cui erano stati aggiunti i posti per permettere di giocare i campionati. Lo ‘viveva’ come casa sua e si preoccupava di tutto: le gradinate furono montate dai suoi operai e anche se si doveva cambiare un faro o una lampadina provvedeva con la sua manodopera; ha investito molto nel basket, allora giravano cifre da capogiro più di adesso e si pagava il cartellino anche alle società. La sua partecipazione emotiva era totale, prima e dopo la partita e non vedere risposta o impegno in chi avrebbe potuto farlo per dare l’impiantistica giusta allo sport che adorava lo ha deluso molto, fino al punto di cedere il titolo al Pozzuoli”.
Si può ricreare quell’ambiente a Campobasso?
“Non credo, tirar dentro il tifoso non è facile e anche mantenere una squadra a quei livelli, anche se i costi adesso sono più accessibili; non vedo il collante giusto per riportarci ai fasti di quei tempi.
In te cosa è rimasto di quel periodo?
“Il ricordo di una passione sportiva che aveva trovato concretizzazione; vedere giocare a Campobasso, squadre blasonate, da Trieste a Trapani, Sassari, Porto San Giorgio, Rimini e altre ancora, è stato qualcosa di grande come vivere a contatto con quei campioni, in quell’ambiente sano ed entusiasta, con quel pubblico caloroso. In più si era giovani”.
La chiacchierata con Mimmo Di Placido è terminata così, aprendo entrambi il forziere dei ricordi belli ed indelebili, che purtroppo sembrano essere anche irripetibili.
Ringrazio il Comitato Regionale del Molise dell’Associazione Nazionale Stelle e Palme al Merito Sportivo che, nella persona di Michele Falcione, mi sta dando un grande aiuto nel contattare i personaggi che poi andrò ad intervistare.