La dignità della gente colpita dal terremoto, la preghiera guidata dai Monaci inginocchiati sulla piazza di Norcia, le Monache di clausura accompagnate in salvo dai Vigili del Fuoco fuori dalle mura che per secoli hanno custodito il loro silenzio, hanno fatto risuonare in tanti l’assordante silenzio di una domanda taciuta, eppure gridata dai volti, dalle storie, dagli addii forzati alle rovine di quei borghi, di quelle chiese e di quelle case tanto amati: perché? Non una protesta o una bestemmia levate contro il cielo, ma il gemito di un muto dolore, di un’indicibile pena, che andava facendosi invocazione, supplica, struggente attesa di fronte all’ignoto. Sta qui la grandezza e la dignità del nostro popolo forte, plasmato da secoli di fede e di cultura, sostenuto dagli esempi di tantissimi santi, educato alla bellezza e proprio per questo al dolore degli addii: saper sopportare la prova a testa alta; credere e sperare anche nell’ora più buia; amare la vita con la forza scolpita nella tenacia degli anziani, nella laboriosità degli adulti, nei sogni diurni dei giovani.
Ed ecco quel dolore solidale esprimersi in innumerevoli gesti, in una partecipazione operosa, nell’attenzione e nella premura a fare qualcosa per chi ha bisogno di tutto. Impressionante la presenza dei volontari, la macchina dell’organizzazione civile, la sollecitudine della Caritas, la carità degli stessi terremotati gli uni per gli altri, a cominciare da quanti non si sono risparmiati sin dal primo momento per soccorrere, lenire, curare. Verrà il tempo in cui le eventuali responsabilità umane nella tragedia dovranno essere accertate e perseguite, affinché la prevenzione antisismica divenga regola in un Paese come il nostro, punta di iceberg dello scontro di due immense placche, quella africana e quella euroasiatica. Bisognerà chiedere conto del perché edifici costruiti con criteri antisismici non hanno retto al terribile urto della terra in movimento, verificando se c’è chi abbia lucrato sugli appalti, costruendo con materiale scandente o senza adeguate misure di prevenzione. Occorrerà vigilare perché i possibili approfittatori della sciagura siano resi inoffensivi nella ricostruzione. L’ora attuale, però, è soprattutto il momento della prossimità, dello stare accanto attivo e generoso: e questo lo possiamo fare tutti, con la disponibilità all’accoglienza, la generosità nel portare gli aiuti che servono alla vita quotidiana, il contributo responsabile alle raccolte in atto per l’immediato e per il futuro. È l’ora di una carità intelligente, organizzata, coordinata dagli indispensabili centri operativi. È l’ora della presa di coscienza che siamo tutti nella stessa barca e che solo remando insieme si potrà superare la tempesta, come ci hanno ricordato efficacemente il Capo dello Stato e il Presidente del Consiglio. Per una volta sembra che l’eco delle risposte a questo appello sia stata concorde, perché il dolore di chi è stato così duramente provato viene prima di ogni calcolo o interesse di parte. È solo così che si potrà dare prova di una speranza più forte del potere distruttivo delle forze della natura: l’Italia sfidata dal terremoto deve reagire e risorgere. Le devastazioni delle guerre, dei terremoti e delle epidemie non hanno mai fermato la rinascita del nostro popolo: non sarà ora a fermarci questa prova pesante. Nel cuore di chi crede, poi, questa speranza è illuminata dalla fede nella resurrezione di Cristo. Il Crocifisso Risorto risolleva i caduti, rafforza le capacità di chi vuole e deve andare avanti. L’impossibile possibilità di Dio è certezza nel cuore di chi credendo opera con vigilanza e amore. In ore come questa fede, speranza e amore sono più che mai inseparabili. Ce lo ricorda la parola del profeta Michea: “Uomo, ti è stato insegnato ciò che è buono e ciò che richiede il Signore da te: praticare la giustizia, amare la bontà, camminare umilmente con il tuo Dio” (6, 8). Un programma di vita per tutti, sempre, ma specialmente nelle ore di prova come quella che il terremoto ha prodotto.
Bruno Forte presidente Ceam arcivescovo di Chieti-Vasto