Il 29 marzo si è svolta presso il Teatro Argentina di Roma la cerimonia di premiazione “Tamburi della pace” promosso dall’Ecole Instrument de pax con la “Maison mondiale de la poesie” di Bruxelles, l’Accademia Italiana di Poesia, con il patrocinio di Roma Capitale e nell’ambito di un Protocollo d’intesa con il Ministero dell’Istruzione e del Merito.
Mentre nel mondo sembra prevalere la cultura dell’odio, la manifestazione “I Tamburi per la pace”, si svolge in numerosi paesi del mondo: nello stesso momento ragazzi e giovani suonano i tamburi e recitano poesie di pace. Una mattinata di riflessioni, letture e musica per “battere i tamburi” e affermare una cultura fondata sulla pace, sui diritti umani, sull’uguaglianza, sulla tolleranza e richiama i “tamburini” dei vecchi eserciti, di solito ragazzi o giovanissimi, schierati in prima linea e destinati ad essere i primi a morire nei conflitti.
Un incontro con i rappresentanti delle massime istituzioni, che hanno proposto ai giovani una riflessione per la scuola e la società civile, per la pace e per la lotta all’odio che porta alla violenza e alla guerra, nella Giornata Mondiale per la poesia UNESCO. Ad introdurre l’incontro: Claudia Pratelli, Assessora alla Scuola, Formazione e Lavoro di Roma Capitale, Anna Paola
Tantucci, Presidente nazionale E.I.P. Italia, Lina Sergi Lo Giudice, Presidente Accademia Italiana di Poesia. Come testimoni di poesia e di pace, Elio Pecora ed Edith Bruck.
Gli studenti delle scuole hanno partecipato ad un bando che prevedeva la scrittura di poesie o di brani musicali incentrati sul tema “Poesia e Musica per la pace e i diritti umani” e sull’obiettivo 16 dell’Agenda Onu 2030. Le alunne della IIA dell’ITE di Bojano sono state premiate. Presenti circa 300 ragazzi che hanno composto poesie e musica che, con la loro creatività, hanno espresso il messaggio centrale: Pace, per una fraternità per tutti i colori.
Una grande commozione si è diffusa nella sala del teatro all’ingresso di Edith Bruck che con pacatezza, garbo e dolcezza si è soffermata non tanto sulla deportazione e sui maltrattamenti ad Auschwitz, ma ha riflettuto sulla valenza profonda dell’amore per la vita e dell’ottimismo. Un grande messaggio di umanità: odio e intolleranza per lei sono banditi, nella storia come nella vita di tutti i giorni.
Ha raccontato delle sue “cinque luci”, grazie alle quali lei, nonostante le atrocità, non ha mai abbandonato la speranza. Si tratta di cinque episodi della sua prigionia che le hanno consentito di vivere, o di non sentirsi sempre e solo un numero.
Il primo punto di luce “Eravamo ad Auschwitz quando venni strappata da mia madre: mi attaccai a lei con le unghie, fu il momento più atroce. Il soldato che mi strattonava con violenza, mi ordinò “vai a destra”, poi capii perché: mia madre era destinata ai forni crematori, a destra invece c’erano i lavori forzati dove fui dirottata, un briciolo di pietà.
La seconda luce, l’ho vista a Dachau. Noi ragazzine venivamo utilizzate come inservienti nella cucina di un castello, fuori dal campo, dove alloggiavano gli ufficiali tedeschi: per noi un luogo paradisiaco, perché riuscivamo di nascosto, ogni tanto, a rubare qualcosa da mangiare. Il cuoco, tedesco, mi chiese: “Come ti chiami?”. Non sapevo cosa rispondere, non eravamo delle persone, eravamo degli scheletri senza capelli. Non avevamo un nome, eravamo un numero, il mio era 11152. Il cuoco si avvicinò e mi disse che aveva una bambina come me: tirò fuori dalla tasca un pettinino e me lo regalò.
La terza luce: un altro soldato, un giorno mi sbattè addosso la sua gavetta ordinandomi di lavarla… ma lui sapeva che, nel fondo, era rimasta un po’ della sua marmellata, che aveva lasciato per me…
La quarta luce, un sorvegliante che mi regalò un suo guanto bucato.
Ed infine la quinta luce, la più importante. Eravamo a Bergen-Belsen ed eravamo costretti a portare sulle spalle i pesanti giubbotti dei militari che stavano alla stazione in partenza per il fronte.
Per ripagarci, si fa per dire, dello sforzo ci concedevano il doppio della zuppa, ma dovevamo percorrere tanti chilometri, andata e ritorno, nel freddo, nella neve…
A un certo punto io non riuscivo più a sostenere quel peso, non ce la facevo più e, non solo io ma anche gli altri, cominciammo a buttarli per terra. Un soldato ci venne incontro urlando e chiedendoci chi aveva buttato giù i giubbotti, minacciando di sparare a tutti. Feci un passo avanti. Il soldato mi spaccò un orecchio e, dal dolore, caddi a terra sanguinante. Mia sorella, che era al mio fianco, saltò addosso al tedesco il quale, prima mi puntò una pistola addosso,
poi allungò una mano per aiutarmi ad alzarmi. Ero totalmente stupita, attonita però mi ritrovai in piedi».
E il tedesco
come «giustificò» questo gesto di gentilezza? «Dicendo: “Se una merdosa ebrea mette le mani addosso a un tedesco, merita di sopravvivere”. Le sue parole vere e coinvolgenti hanno emozionato e catturato tutti, a partire dai ragazzi, per cui la sua testimonianza è stata una preziosa occasione, non soltanto per ricordare il dramma dell’Olocausto, ma anche per riflettere sul suo rifiuto di odiare, di vendicarsi, perché “non si poteva cominciare dopo un orrore del genere con altro orrore”.
Prima di congedarsi, ha invitato i giovani uditori a non dimenticare e a rinnovare la memoria, tenendo sempre vivo il ricordo della Shoah, della guerra, delle vittime dell’olocausto.
La prof.ssa Italia Martusciello che ha avuto l’onore di incontrare Edith Bruck “E’ stata un’esperienza unica, mi sono molto commossa, quando mi ha abbracciato, mi ha regalato il suo libro Il pane perduto, con una dedica e mi ha ringraziato per il lavoro che svolgo quotidianamente con gli alunni”.
La docente I. Martusciello