Le celebrazioni per il sessantesimo anniversario della firma dei Trattati di Roma, mi offrono l’occasione per condividere con lei e con i suoi lettori qualche breve riflessione sul senso di questa giornata e, più in generale, sul futuro dell’Unione Europea e delle sue istituzioni.
Oggi più che mai, infatti, è necessario parlare di Europa. Non soltanto per ricordare con orgoglio il percorso storico, economico e politico ideato e costruito con tenacia da uomini come De Gasperi, Monnet, Adenauer e Schumann, solo per citarne alcuni. È necessario parlare di Europa anche perché mai come ora si avverte l’esigenza di recuperare lo spirito ed il coraggio che consentirono ad un continente uscito distrutto da due conflitti mondiali di avviare un percorso di integrazione politica ed economica con l’obiettivo finale di bandire la guerra tra Stati membri.
E in effetti, coinvolti come siamo dalle vicende dell’attualità politica di tutti i giorni, tendiamo a dimenticare ciò che rappresenta la vera essenza del nostro stare insieme e cioè che l’Unione tra gli Stati nazionali europei è garanzia di pace. Una pace che dura da oltre settant’anni. Nella prima metà del secolo scorso – tanto per dare un’idea – gli Stati nazionali europei hanno scatenato due guerre mondiali che hanno causato oltre 70 milioni di morti.
È questo, dunque, l’obiettivo che i sei Paesi fondatori della Comunità Economica Europea si imposero di raggiungere sessanta anni orsono. Una scommessa senz’altro ardua ma rivelatasi vincente: tutta la storia europea – dalla seconda metà del secolo scorso fino ai giorni nostri – si è piegata intorno a questa idea rivoluzionaria.
Credo tuttavia che il miglior modo per celebrare degnamente l’anniversario della firma dei Trattati di Roma, sia quello di non scadere nella facile quanto inutile retorica, nella consapevolezza che dinanzi ai molteplici problemi e alle numerose difficoltà del momento, meglio far emergere con onestà gli ostacoli che si frappongono sulla strada di una maggiore integrazione piuttosto che nascondere la polvere sotto il tappeto.
L’Europa pensata e costruita nel 1957 non può reggere le sfide di un mondo sempre più globale e interconnesso. Ma soluzione non può essere un’Unione ripiegata su se stessa o, peggio ancora, divisa e spogliata delle sue principali funzioni istituzionali. Il cambiamento è tale se riesce ad innovare, accrescendole, le opportunità di unione e non di divisione.
Ciò che è mancato fino ad ora, dunque, è il coraggio di andare oltre l’interesse dei singoli Stati nazionali. Sono i governi dei Paesi membri che in questi decenni hanno impedito alle istituzioni europee di avere tutta la forza e la legittimazione di cui un’Unione ha bisogno per far funzionare al meglio le cose.
Solo per citare un esempio di stringente attualità, dinanzi ad un’Europa che chiede maggiore solidarietà e la divisione in quote dei richiedenti asilo, gli Stati membri hanno preferito rinchiudersi dietro un assurdo diniego, edificando persino anacronistici muri. Prendersela dunque con l’Europa in quanto tale, come se non fosse l’espressione della volontà degli Stati che la compongono, è un grave errore.
Con i suoi problemi e le sue difficoltà, l’integrazione europea rimane tutt’oggi una storia di condivisione di esperienze, valori e principi comuni, all’interno dei quali ciascuno è libero di esprimere al meglio la propria identità nazionale. L’Europa non ci chiede di accettare il corso degli eventi come una realtà immutabile. Essa è la nostra scelta giornaliera: un “plebiscito quotidiano” attraverso il quale decidiamo di legarci ad essa. Di legarci gli uni agli altri in un destino comune. È questo, in definitiva, il senso di quella firma che oggi ci apprestiamo a celebrare.
On. Aldo Patriciello