Il DDL sulla scuola è approdato al Senato. Sono circa 2000 gli emendamenti presentati, molti da senatori del PD. Diffusa è la convinzione, o la speranza, che i rapporti di forza all’interno di questo ramo del parlamento costringeranno Renzi e la Giannini ad atteggiamenti meno arroganti e più dialoganti. Non mi avventuro a fare pronostici sull’esito di questa battaglia parlamentare che comunque andrà non potrà trasformare in cigno quel brutto anatroccolo definito buona scuola (provo ad immaginare cosa sarebbe stato senza quell’aggettivo). Chi pensa che il testo uscito dalla Camera possa essere modificato così profondamente da renderlo accettabile confida anche nel deludente risultato elettorale del PD alle ultime regionali, riconducibile in parte alla protesta ed alla straordinaria mobilitazione del mondo della scuola.
Renzi ha un obiettivo: costruire un sistema di potere piramidale che consenta alla politica, tramite i dirigenti scolastici, di assumere e premiare amici, parenti e clienti, chi si adegua e non disturba il manovratore, abolire la libertà di insegnamento (pericolosissima in una società dominata dal pensiero unico e dell’uomo solo al comando), e legalizzare quella piaga tutta italiana del clientelismo.
Nel DDL è infatti del tutto assente un’idea di scuola articolata e organica che rappresenti la stella polare per le politiche didattiche, che è impossibile recuperare all’interno della legge in discussione. La scuola che viene prospettata è schiacciata sul presente, nelle sue forme dominanti della produzione economica e della tecnologia, dove il presente è punto di arrivo definitivo e la conoscenza sembra orientata alla sua conferma e al suo mantenimento.
A dispetto delle dichiarazioni del capo del Governo, e della sua accolita di servi sciocchi, il messaggio arrivato agli italiani non è stato quello teso a rimettere la scuola al centro delle politiche del Paese, quale settore strategico senza il quale non c’è futuro, ma quello della scuola italiana che non funziona perché gli insegnanti sono fannulloni o incapaci, privilegiati perché godono di troppe vacanze. Eppure tutti sanno che i giorni di scuola degli alunni italiani rientrano nella media europea e mondiale, lo stipendio degli insegnanti no, è tra i più bassi. Da parte del Governo non c’è stato difetto o errore di comunicazione perché era proprio quello il messaggio che si voleva dare. Un messaggio devastante, al quale difficilmente si potrà porre rimedio, che ha colpito un settore davvero delicato e strategico.
Oltre che falso, il messaggio è l’epilogo di un processo che ha messo da tempo la scuola e gli insegnanti nel mirino. Da decenni assistiamo al progressivo disinteresse e disimpegno dello Stato, uno Stato che ha ridotto in modo indecente gli investimenti, che ha mortificato la figura ed il ruolo sociale degli insegnanti, proprio di quegli insegnanti che, remando controcorrente e a mani nude, si sono fatti carico non solo delle inadempienze dello Stato ma anche di quelle delle famiglie che, anche a causa delle sempre più precarie condizioni sociali ed economiche, hanno delegato sempre più alla scuola l’educazione e la formazione dei ragazzi e dei giovani. Sulle spalle di chi lavora nella scuola gravano responsabilità che non sono paragonabili alla retribuzione e alla considerazione che di essi ha questa società, e spesso le stesse famiglie e gli stessi studenti. Avevamo bisogno di ben altro da parte di chi ha la pretesa di cambiare questo Paese.
Gli insegnanti, tuttavia, rivendicano il merito di avere permesso ai nostri giovani, in uno scenario in cui lo Stato è latitante, di misurarsi con altre realtà europee e mondiali nelle quali, nonostante tutto, riescono ad emergere e ad affermarsi. Rivendicano il merito di aver mantenuto un presidio fondamentale in un Paese che ha la pretesa di definirsi civile.
Questo significa che gli insegnanti sono soddisfatti per come vanno le cose nella scuola? Assolutamente no. Come potrebbero esserlo con il contratto bloccato da anni, e gli stessi scatti per l’avanzamento della carriera bloccati? Dove sono gli investimenti del governo se le famiglie devono pagare una sorta di ticket per consentire ai ragazzi di usufruire di servizi scolastici essenziali, che dovrebbero essere gratuiti? Questi apologeti della precarizzazione del lavoro ci risparmino la storiella dell’assunzione dei precari. Se ci sarà, e mi auguro che ci sarà (ma perché non si è proceduto per decreto all’assunzione?), non avverrà per volontà del governo ma per evitare la procedura di infrazione successiva alla sentenza della Corte di Giustizia europea.
L’attacco del Governo, sostenuto dalle forze di destra e di Confindustria, è rivolto alla scuola pubblica ma anche al sindacato. Sindacato che neanche Berlusconi era riuscito a ricompattare. Un sindacato che certamente sconta errori strategici e tattici.
Un attacco politico e mediatico, portato avanti con determinazione ed armi sofisticate, che punta a definire lo status e la remunerazione degli insegnanti non più attraverso la contrattazione ma attraverso regole stabilite unilateralmente dal governo. La scuola è solo il primo passo, poi toccherà a tutto il pubblico impiego. Sebbene generosa, e da me condivisa e sostenuta, la decisione di bloccare per due giorni gli scrutini delle classi intermedie è insufficiente ed inadeguata. Ci vorrebbe ben altro per contrastare efficacemente un disegno pericoloso e tendenzialmente autoritario. Bisognerebbe bloccare gli scrutini ad oltranza, anche infrangendo la legge e rischiando la precettazione degli insegnanti, ed arrivare al più presto ad uno sciopero generale confederale.
Domenico Di Lisa
Docente presso il Liceo Scientifico “A. Romita” di Campobasso