“Etica ed umanizzazione delle Cure” è stato il tema dell’incontro promosso, mercoledì 6 maggio, dalla Fondazione di Ricerca e Cura “Giovanni Paolo II”. Il Direttore Generale e Sanitario, dottor Mario Zappia, nell’introdurre i lavori ha ricordato che è quella del Medico e dell’operatore sanitario è una vera e propria vocazione al servizio dei Fratelli che vivono l’esperienza della malattia. L’evento si inserisce nel programma di formazione etica e spirituale promosso dalla Fondazione in linea con i principi cristiani che ispirano l’Istituzione. Monsignor Andrea Manto, Direttore del Centro di Pastorale Sanitaria della Diocesi di Roma e già Direttore Nazionale dell’Ufficio di Pastorale della Salute della Conferenza Episcopale Italiana ha svolto una appassionata relazione.
“La parola umanizzazione in sanità va declinata negli aspetti della qualità, della condivisione e della spiritualità, intesa prima di tutto come ricerca di una dimensione di verità e di senso nella malattia e nell’atto medico. Senza queste tre dimensioni nel suo insieme non può esserci vera e duratura umanizzazione” ha sottolineato Mons. Manto.
L’ospedale, e più in generale ogni struttura o realtà deputata a fornire assistenza e cura devono configurarsi sempre più come una comunità che “accoglie e si prende cura” in maniera condivisa della persona malata, per non lasciare solo il malato e la sua famiglia nei momenti di maggiore fragilità.
L’umanizzazione delle cure vive e si nutre della parola, della narrazione, del racconto che il paziente fa di sé e della propria malattia. Lo spazio della narrazione in medicina è un’occasione preziosissima che non disperde energie ma, anzi le economizza, le ottimizza perché permette una comprensione che evita la dispersione degli elementi dell’anamnesi.
Raccontare e ascoltare significa “comprendere” nel senso di “mettere insieme”. E questo non permette soltanto di guardare l’uomo al posto dell’organo ma significa avere la capacità di armonizzare e sintetizzare le informazioni di quel racconto, farle interagire con il sapere medico e restituirle come in un mosaico evitando dispersioni anche nelle prescrizioni diagnostiche e terapeutiche. Significa favorire un’adesione alla terapia che diventa frutto di un patto di fiducia, di un’alleanza che solo l’ascolto e l’empatia può garantire.
Significa evitare che 10 miliardi di euro ogni anno, circa lo 0,75% del pil e il 10% circa del Fondo Sanitario Nazionale venga impiegato per difendersi da contenziosi legali (Fonte: Commissione di inchiesta parlamentare sugli errori sanitari).
Come agisce un farmaco noi per alcuni versi lo sappiamo. Il suo percorso chimico e fisico in linea di massima lo conosciamo. La sua farmacocinetica ci è nota. Ciò che non controlliamo è il contesto terapeutico, è la compliance, è tutto ciò che non sappiamo di un paziente e che a nostra insaputa interagisce con la terapia che gli prescriviamo.
È questa la sfida della medicina. Provare a rovesciare il tempo a pensarlo “umanizzato” a non inquadrarlo in un tariffario perché se il tempo prestato a un paziente non è sufficiente quel tempo sarà inevitabilmente ripetuto, e sempre in maniera insufficiente, in altri ambulatori con il risultato di una tariffa moltiplicata per il cittadino e per il Servizio Sanitario Nazionale. Rovesciare la clessidra a favore del paziente significa rovesciarla a favore della medicina e della Sanità.
Rovesciare la clessidra a favore del paziente significa rovesciarla a favore della medicina e della Sanità
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