«Abbiamo capito che si può morire a Parigi o a Berlino o nel cuore dell’Europa, così come si muore a Bagdad o nel cuore dell’Africa. Atti di terrorismo così ben congeniati e determinati che ci fanno paura. Come fa paura l’ignoto, un futuro da gestire con fatica. Riemergeranno di certo rigurgiti razzisti, scelte dettate dalla paura collettiva. Una nuova emergenza. Con mille domande, sulle responsabilità, recenti ma soprattutto remote, antiche, che arrivano fino alle radici di un modo di essere da parte dell’Europa nei confronti della giustizia e della impostazione del mondo.
Condanna totale, ovviamente. Ma anche riflessione nel cuore di questa Europa che si trova a dover affrontare scelte innovative sul suo futuro. Poiché problemi che si pensavano di altri, oggi sono a casa nostra, sono sugli spalti dei nostri stadi o nella saletta riservata di un concerto o per strada. Nulla è lontano, nulla ci è più estraneo. Tutto si fa tremendamente vicino, tutto nostro.
Ed è per questo che ancor più grande è stata la sfida che la Chiesa italiana ha posto a tutti sulla necessità di costruire in Cristo Gesù un umanesimo nuovo, da pensare e vivere con chiarezza di scelte e franchezza di cuori. Questo grande convegno si è svolto a Firenze, nei giorni scorsi, da lunedì a venerdì di questa settimana. Una sfida che è stata ben raccolta dagli oltre 2500 delegati, con vescovi e cardinali e tanti laici. Anche giovani, che ci hanno chiesto di cambiare molte cose. Ha stupito tutti, nella sintesi finale, una frase buttata lì, quasi per effetto speciale, quando i giovani hanno chiesto di bruciare i divani delle nostre case. Cioè di non restare con le pantofole, comodamente seduti, passivi, senza intervenire davanti a troppe ingiustizie per la precarietà del lavoro e i muri per gli immigrati. Ci chiedono di non cedere alle comodità e agli egoismi. La storia va invece assunta, con accresciuta consapevolezza.
Certo non è facile costruire oggi un umanesimo nuovo. Ma è necessario, proprio davanti a fatti così tremendi come i fatti di Parigi. Non è bastata infatti quella risposta corale data a gennaio da milioni di persone davanti all’assalto al giornale satirico. Ma già allora, con chiarezza, avevamo lanciato un appello: perché portare in corteo una matita, per dichiarare solo la libertà di poter scrivere quello che vogliamo? Troppo poco! Suggerivo un mio personale sogno: portare in corteo un bel cuore. Cioè un segno di giustizia, di solidarietà globale, di corresponsabilità mondiale, di lavoro per tutti, di dignità per ogni immigrato.
I fatti di Parigi ci chiedono così la forza intellettuale di capire le nostre scelte, di riflettere bene sul futuro da costruire per e con i nostri figli. Quei divani dati al falò sono la voce di una generazione nuova che vuole prendere in mano direttamente la costruzione di un Umanesimo nuovo, di giustizia e di verità. Ecco perché è stata mirabile l’aver ripreso la figura di don Lorenzo Milani, cittadino verace e pungente di quella bella ed incantevole città di Firenze, che sempre ci attrae, sia per l’arte che per il comportamento della sua gente.
Ebbene, don Milani ha finalmente avuto un eco nuova nella messa solenne, davanti al Papa, un posto atteso tra i credenti italiani, che come me, si sono nutriti dei suoi scritti e delle sue scelte controcorrente, profetiche, tanto esemplarmente additate da papa Francesco in quel suo mirabile discorso fatto martedì 10 novembre, proprio nel cuore di Firenze, la bella Cattedrale di Santa Maria del Fiore. Don Lorenzo ci ha insegnato che i poveri hanno una dignità che va ricuperata, andando lì a cercare nei luoghi sofferti di lavoro, in una chiesa in uscita, che non sta adagiata sui divani. Ci chiede di rileggere ciò che aveva scritto sulle pareti della piccola ma luminosa scuola di Barbiana, che è la vera risposta che oggi l’Europa deve assumere: I Care, mi interessa, mi sta a cuore. Ci ha dimostrato che le scelte di pace si fanno già nelle aule scolastiche, annunciando Cristo, profeta di pace e leggendo un Vangelo, sempre più tremendamente rivoluzionario, perché Gesù era “troppo amico dei poveri e troppo poco amico della roba!”. Diceva infatti: Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia, perché saranno saziati (Matteo 5, 6).
Così vedremo che quella periferia sperduta sui monti ci parla ancora, per costruire un nuovo Umanesimo. E’ duro ma vero rileggere una pagina della lettera ad una professoressa, scritta quarant’anni fa: “Cercasi un fine. Il fine giusto è dedicarsi al prossimo. E in questo secolo come vuole amare se non con la politica o col sindacato o con la scuola? Siamo sovrani. Non è più il tempo delle elemosine, ma delle scelte. Contro i classisti che siete voi, contro la fame, l’analfabetismo, il razzismo, le guerre coloniali”. E concludeva: Fai strada ai poveri, senza farti strada!. E l’appello che don Lorenzo rivolge alla Chiesa italiana e all’Europa tutta, per abitare il territorio, le relazioni e il nuovo, senza paura, come ci ha detto il Convegno»
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