Accade frequentemente che le vittime di un reato cerchino di munirsi di una prova, di un documento che permetta loro di dimostrare l’esistenza del delitto e la responsabilità del suo autore, evitando così il rischio di vederlo prosciolto ingiustamente in sede giudiziale. Il terreno delle registrazioni e delle intercettazioni è un campo minato, dove chi è in cerca di una prova corre il rischio, paradossalmente, di commettere un reato. Il nostro sistema processuale penale prevede l’utilizzo delle intercettazioni quale mezzo di ricerca della prova, ma gli organi competenti a disporla sono unicamente il P. M. e la Polizia Giudiziaria. Non solo, l’autorizzazione può essere disposta solo in casi limitati e per tassative figure di reato elencate dal codice di rito.
Il privato cittadino che intercetta una conversazione al fine di premunirsi di una prova, commette a sua volta un reato e subisce quello che può essere definito come “effetto boomerang”. Ciò accade frequentemente a persone offese che finiscono per essere accusate di un duplice reato, a cui risponderanno ex artt. 617 e 617–bis del codice penale.
L’art. 617 c. p. ha ad oggetto la cognizione illecita di conversazioni telefoniche e recita: “Chiunque, fraudolentemente, prende cognizione di una comunicazione o di una conversazione, telefoniche o telegrafiche, tra altre persone o comunque a lui non dirette, ovvero le interrompe o le impedisce è punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni”.
Se a tal fine l’autore del reato utilizza apposite apparecchiature risponderà anche del reato ex art. 617-bis, che al primo comma recita: “Chiunque, fuori dei casi consentiti dalla legge, installa apparati, strumenti, parti di apparati o di strumenti al fine di intercettare od impedire comunicazioni o conversazioni telegrafiche o telefoniche tra altre persone è punito con la reclusione da uno a quattro anni”.
A titolo di esempio è possibile menzionare il caso del marito che ha intercettato le telefonate della moglie per provarne l’infedeltà installando abusivamente nel telefono apposite apparecchiature atte a registrarne le conversazioni; egli ha risposto tanto dell’art. 617 c. p. quanto dell’art. 617-bis c. p., con condanna definitiva anche nell’ultimo grado di giudizio (Corte di Cassazione, sentenza 18 marzo 2003, n. 12698). Ma c’è una scappatoia a tutto ciò che rende possibile acquisire una prova tramite una registrazione e ciò senza violare la legge. Il codice di procedura penale non dà una definizione chiara di “intercettazione” ma indica i requisiti che la compongono, che sono: l’assenza dell’autore della registrazione alla conversazione, l’inconsapevolezza degli interlocutori di essere registrati e l’ausilio di strumenti meccanici o elettronici idonei a superare le naturali capacità dei sensi.
In assenza di una di dette caratteristiche non può, quindi, parlarsi di “intercettazione” e la registrazione diventa lecita ed utilizzabile in giudizio.
E’ possibile, ad esempio, registrare una conversazione alla quale si partecipa, perché manca il requisito dell’assenza dell’autore alla conversazione, necessario affinché possa parlarsi di intercettazione. Tanto la manualistica quanto la giurisprudenza hanno infatti chiarito che la registrazione di un colloquio, effettuata da persona presente, non è intercettazione ma costituisce una forma di “documentazione”, ossia la memorizzazione fonica di un fatto storico; il supporto su cui vengono impresse le tracce di tale conversazione è, pertanto, un vero e proprio documento, acquisibile come prova in giudizio ai sensi dell’art. 234 del codice di procedura penale.
avv. Silvio Tolesino