Riceviamo e pubblichiamo
Il Partito Democratico sceglie di non modificare il JOBS ACT, ovvero la legge quadro in materia di deregolamentazione dei diritti dei lavoratori con cui tra le altre misure di precarizzazione è stato abrogato anche l’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori ( Legge n. 300 del 20 maggio 1970 ) che prevedeva una giusta causa per un licenziamento. La Commissione Lavoro presieduta dall’On. Cesare Damiano durante il confronto parlamentare delle ultime settimane aveva predisposto delle modifiche al JOBS ACT che pur non mettendo in discussione la legge ne attutivano i contraccolpi. In particolare tra gli altri emendamenti di minore impatto quelli più significativi miravano a ridurre da 36 a 24 mesi la durata massima dei contratti a termine, ed elevavano da 4 a 8 mensilità l’indennizzo minimo a carico dell’azienda in caso di licenziamento privo di giusta causa e giustificato motivo. Il Governo ha espresso parere contrario, ed ottenuto il ritiro e la bocciatura, degli emendamenti modificativi. Questo orientamento del Partito Democratico è alla base dello stravolgimento del mercato del lavoro che vede crollare le assunzioni a tempo indeterminato in favore delle molteplici variabili della precarietà. Basta scorrere i dati ISTAT, INPS, CNEL, CGIA di Mestre o di qualsiasi Centro Studi per accertarsi sull’incidenza progressiva di contratti a chiamata, attività parasubordinate, lavoro interinale, assunzioni a termine, stage, tirocini, formazione, a partita IVA, e attraverso una miriade di altri strumenti incardinati sulla precarietà permanente. Il calo dei contratti a tempo indeterminato riduce il potere negoziale dei lavoratori, allunga i tempi per i rinnovi dei contratti nazionali che ordinariamente dovrebbe avvenire ogni triennio, non agevola la stipula di accordi aziendali o territoriali, genera insicurezza e perdita di potere d’acquisto, e indebolisce l’attività dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza antinfortunistica. Le stesse imprese venendo orientate a cogliere i benefici delle norme sul precariato che incidono sul basso costo del lavoro perdono di vista gli investimenti in formazione continua, aggiornamento e qualificazione del personale, stante l’impossibilità di pianificare una fidelizzazione media sufficiente del lavoratore su cui fare tale investimento. Con figure meno qualificate il salario è ridotto ma la produttività pro-capite oraria è inferiore rendendo problematica la competizione sulla qualità e sull’eccellenza delle produzioni che non può reggere su un turn over infinito. Ciò che è sbagliato nel JOBS ACT è l’idea di un’Italia che rinuncia alla competizione con maggior valore aggiunto nelle fasce medio-alta della gamma dei prodotti stante l’assenza di interventi tesi a incentivare la stabilità occupazionale, la fidelizzazione del personale e gli investimenti sull’innalzamento delle competenze professionali a partire dall’utilizzo corrente delle tecnologie digitali. Se si sceglie di rimanere sul mercato globale comprimendo i diritti salariali, contrattuali e legislativi dei lavoratori, sarà dura sconfiggere cinesi, indiani, turchi, indonesiani, albanesi, vietnamiti e bengalesi che percepiscono 100/150 dollari al mese per 12 ore giornaliere lavorando anche il sabato e senza protezioni sociali o sicurezze antinfortunistiche.
Michele Petraroia