Scrivo questo articolo mentre in Libia un raid aereo ha colpito un centro di detenzione per migranti illegali vicino Tripoli e in Italia una donna tedesca, capitano di un’Ong, ha ricevuto insulti per aver salvato dei migranti, seppur abbia disobbedito a qualche divieto. Che la legge vada rispettata non ci sono dubbi, ma allo stesso modo va rispettata la vita.
Senza entrare troppo nel merito di pensieri personali (la verità sta sempre al centro!) certo è che quando si parla di immigrazione si fa riferimento al flusso di informazioni, oggetti e idee, ma ci si dimentica di parlare delle persone, le vere protagoniste, vittime di politiche di controllo innescate proprio in quelli che vengono definiti centri di accoglienza, dentro i quali, in molti casi, viene negata la dimensione umana. E mentre in Germania l’immigrazione è funzionale, in Francia avviene per assimilazione, in USA si parla di “bowl salad” (che determina il fallimento del multiculturalismo) l’Italia è caratterizzata da un non sistema emergenzialista per la sua tattica posizione geografica.
Non vorrei cadere in frasi fatte. “Anche gli italiani sono emigrati e anche loro venivano trattati male, soprattutto a livello lavorativo!”. Ma è vero. Sicuramente tutti avrete sentito parlare del sogno americano, della valigia di cartone, con una sola maglia a V, che per avere il girocollo veniva messa al contrario, ma piena di speranze e aspettative. Molte volte disattese, altre no. E la malinconia per il paese di origine.
E il buono e il marcio che, come oggi, c’erano anche quando gli italiani erano immigrati. Dal 1870 in poi, infatti, l’Italia ha spinto circa diciassette milioni di italiani ad emigrare nell’arco di cinquant’anni. Nel nuovo mondo, le mete favorite erano le città industriali della costa orientale degli Stati Uniti, per la vicinanza sia alle zone portuali che alle grandi città limitrofe. Alla paura e alla criminalizzazione dello straniero, nei primi anni, seguirono riflessioni legate alla pratica dell’immigrazione e gli stranieri iniziarono ad essere visti come braccia utili al funzionamento dell’economia nazionale.
Oltre che l’America le mete più ambite dagli italiani erano la Svizzera, la Germania, il Belgio e l’Inghilterra. In alcuni casi sono nati progetti di collaborazione con il paese d’origine che resta nel cuore, nei sogni, nei desideri del migrante… E alle volte si ritorna. Diffuso è, nell’ultimo periodo, infatti, il turismo di ritorno o la scelta di concludere il ciclo nel paese di origine, inebriandosi di ricordi e scoperte, che cancellano il tempo perso. Ad esempio, a Monteverde di Bojano, se si entra nel cimitero, sul lato sinistro, in basso, compare la foto di un uomo allegro che suona fieramente la fisarmonica. Sulla lapide la scritta “Antonio Scinocca, nato il 16 marzo 1942”. E morto? Antonio Scinocca gode di ottima salute e io gli auguro altri 100 anni di suonate, cantate e ballate con la sua fisarmonica.
È un emigrato, vive in Francia, da quando era bambino, e a Brive la Gaillarde ha messo su famiglia. Ha fatto fortuna nel mondo dell’edilizia, ma non passi un’estate senza tornare nella sua adorata terra, l’Italia, il Molise! Antonio ha scelto già tutto per quanto arriverà il momento, il posto, la lapide e la foto. Scaramanzia o no, la scelta di quest’uomo non è sicuramente legata a dinamiche familiari. È una scelta di cuore che dimostra l’attaccamento e la gratitudine alla terra dove è nato e dove sono nati i suoi cari. Questa di Antonio non è l’unica storia del genere.
Altri casi simili sono stati riscontrati anche al cimitero di Guardiaregia. Solitamente è una pratica frequente tra persone sole che spesso non hanno parenti, oppure sono quelle che, pur avendoli, non vogliono far gravare le spese dei funerali sui loro familiari. Mentre Antonio di parenti ne ha, ha tanti amici, tra cui la musica e ha reso nota la sua volontà, quella di farsi tumulare nel cimitero della sua borgata. Fra cent’anni e più, ovviamente!
di Angelica Calabrese