Ossario Molisano: viaggio nei cimiteri della nostra regione. 14° tappa Cimitero di San Biase. Epigrafe dedicata a Mechèle de Cole

Era pratica comune che, quando il raccolto fosse buono, i contadini provvedessero al futuro ed acquistassero la bara, “perché poi non si sa mai”. Il loro cruccio, specie se poveri, era sempre quello di avere una sepoltura dignitosa, quando sarebbe arrivato il momento. La bara veniva, poi, generalmente conservata sotto il letto ed utilizzata all’occorrenza come portabiti. Parliamo del tempo dei nonni, bisnonni o trisavoli, ma comunque di un qualcosa non lontanissimo da noi, a cui, però, certamente non siamo abituati.

La fame, il rispetto per il cibo, gli animali in casa per riscaldarsi, la terra, l’assenza di servizi igienici nelle abituazioni, della corrente elettrica… sicuramente ne avrete sentito parlare perché è qualcosa che fa riferimento al secolo scorso. Una fotografia che descrive al meglio la situazione di un tempo che non è più è stata scattata da Tony Vaccaro. Fiero, con un sorriso accennato, perché “sgangato”, appare il protagonista, con vesti rattoppate e scarpe rotte. Gli occhi sono chiusi e tra le mani ha un bastone di legno.

Questo uomo è stato preso come esempio di tutti i Mechèle de Cole presenti in Molise. Si tratta di poveracci, in particolare, quello di cui vi parlerò era originario di San Biase. Figlio di Vincenzina De Paola soprannominata Cènze de Massemille, rimasta vedova prematuramente, Mechèle de Cole (la lettura prevede l’omissione della e finale) viveva con questa donna, probabilmente con disturbi psichici che l’avevano portata ad un’estrema trascuratezza. Quando erano presi in giro, entrambi rispondevano lanciando sassi.

I bambini gli urlavano sempre dietro “Mechèle e Mechèle, la gatte per meglière, le sorge pe marite e Mechèle rèste zite”. La dimora di Vincenzina e Mechèle era un tugurio con le crepe rattoppate da stracci e cartoni, non avendo neanche il vetro alle finestre. Al posto del letto c’era un sacco di mais coperto da coperte e panni logorati dall’usura e dai topi. La madre e il figlio si grattavano continuamente da ogni parte del corpo tanto da avere croste ovunque.

Quando Mechèle divenne più grande, cominciò ad andare dietro lo zio Antonio che faceva lo spazzacamino. Gli brillavano gli occhi quando girava per i vicoletti di quei paesini mai visti prima e riusciva ad elemosinare qualcosa da mangiare. La madre rifiutava sempre gli aiuti che a San Biase le erano riservati e lui era costretto a fare lo stesso, nonostante la fame estrema. La donna non si fidava degli altri: “le male lingue”.

Morto lo zio, Mechèle girava cencioso per il paese, aspettando di essere comandato per avere qualche tozzo di pane in cambio e placare un po’ il dolore di stomaco. Quando aveva molta fame andava alla caccia di nidi e arrostiva i piccoli uccellini che trovava. Pian piano perse i denti. Ma nonostante questo pare fosse ambito da una certa Pasqualina, emigrata in Canada. Le ragazze di San Biase, per farsi due risate, lo corrompevano con un po’ di pane e formaggio, lo chiamavano, lo prendevano in giro e gli davano delle lettere profumate di certa Pasqualina, per la quale lui aveva perso la testa, ma lei era volata a Toronto, le aveva promesso la richiesta di trasferimento, che mai arrivò perché tale Pasqualina nel nuovo mondo convolò subito a nozze, ma a Mechèle piaceva l’idea di poter andar lontano un giorno, lui che non aveva né arte né parte. Iniziò poi una vita da nomade, girò gran parte del Molise a piedi e si dirigeva nei paesi in corrispondenza delle festività patronali.

Petrella, Lucito, Castelbottaccio, Guardialfiera, Civitacampomarano, Castellino sul Biferno. Quando in questi luoghi riceveva un piacevole trattamento ringraziava con la sua celebre benedizione “Che la Madonna e Gése Criste te le pozze arrrènne”. Alla fine Mechèle si trasferì a Limosano e lì riuscì anche ad avere qualche soddisfazione amorosa. Con Domenica, donna rude e meschina, che aveva dei figli con anziani del luogo. L’ultimo era Nunzio, che fracido ed ubriaco tornò a casa proprio nel momento in cui Mechèle entrò nel letto di Domenica, nel posto di Nunzio. La donna non gli aprì, fece dormire il marito nella stalla. Tante furono le notti di fuoco tra i due, spesso anche in presenza di Nunzio. Ma alla fine Mechèle morì solo.

I vicini non vedendolo uscire di casa avvertirono la guardia comunale che lo trasferì all’ospedale Cardarelli di Campobasso. Medici, infermieri e sanitari lo tennero per giorni in isolamento per assenza di posto o per il lerciume e le pulci che aveva addosso? Morì il 26 maggio 1977. Mechèle fu collocato in una cassa e dopo la benedizione di un prete fu seppellito in una fossa del cimitero del capoluogo.

Non fu possibile trasferire le sue spoglie in uno dei paesi da lui amati, ma Michele Tanno (che in sua memoria ha scritto anche un libro) in accordo con dei familiari avrebbe esposto un’epigrafe in memoria del defunto al cimitero di San Biase.


“MICHELE D’ANDREA 29-4-1898 / 26.5-1977
IL NIPOTE ALFREDO DE PAOLA IN MEMORIA POSE”

di Angelica Calabrese

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