La Corte costituzionale, con sentenza n. 7/2024, ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli articoli 3, primo comma, e 10 del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23, il quale, in attuazione della legge delega n. 183 del 2014 (Jobs Act), ha introdotto il contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio.
La Corte d’appello di Napoli aveva censurato la disciplina sui licenziamenti collettivi, in merito alle conseguenze della violazione dei criteri di scelta dei lavoratori in esubero; che prevede una tutela indennitaria, compensativa del danno subito dal lavoratore, ma non la tutela reintegratoria nel posto di lavoro, in equilibrio con l’ipotesi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
La legge di delega aveva escluso, per i “licenziamenti economici” i lavoratori assunti(a partire dal 7 marzo 2015) con contratti a tutele crescenti, la possibilità della reintegrazione nel posto di lavoro, prevedendo un indennizzo economico, limitando il diritto alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato.
La Corte ha ritenuto che, il riferimento contenuto nella legge delega ai “licenziamenti economici” riguarda sia quelli individuali, per giustificato motivo oggettivo, sia quelli collettivi ed ha escluso la violazione dei criteri direttivi della legge delega, inoltre ha ritenuto non fondata la censura di violazione del principio di eguaglianza, comparando i lavoratori “anziani” (assunti prima del 7 marzo 2015), che conservano la più favorevole disciplina precedente e quindi la reintegrazione nel posto di lavoro, e i lavoratori “giovani” (assunti dopo tale data), ai quali si applica la nuova disciplina del Jobs Act.
La nuova disciplina dei licenziamenti è orientata ad incentivare l’occupazione e a superare il precariato ed è prevista solo per i “giovani” lavoratori.
Il legislatore non era tenuto, sul piano costituzionale, a rendere applicabile questa nuova disciplina anche a chi era già in servizio.
La Corte ha ritenuto non inadeguata la tutela indennitaria; attualmente al lavoratore illegittimamente licenziato all’esito di una procedura di riduzione del personale spetta un’indennità, non assoggettata a contribuzione previdenziale, di importo pari al numero di mensilità, dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, determinato dal giudice in base ai criteri indicati nella sentenza n. 194 del 2018, in misura non inferiore a sei e non superiore a trentasei mensilità ed ha ribadito che “la materia, non può che essere rivista in termini complessivi, che investono sia i criteri distintivi tra i regimi applicabili ai diversi datori di lavoro, sia la funzione dissuasiva dei rimedi previsti per le disparate fattispecie.
Alfredo Magnifico