Dal blog di Pasquale Di Lena riceviamo e pubblichiamo
La memoria continua a riportarmi indietro di qualche mese quando, grazie alla brava insegnante Maria Luisa Ranellucci, ho avuto la possibilità di incontrare i suoi allievi della Vª elementare che avevano fatto una ricerca sulle mie poesie in dialetto, raccolte nel libro “U penziere”. Due ore per vivere insieme la bellezza del dialetto, in questo caso di Larino, e parlare della sua importanza – quale espressione alta di un territorio – soprattutto in questa fase in cui è a rischio, con i dialetti, la stessa lingua italiana, inquinata da parole inglesi, il più delle volte a sproposito. Ho fatto mia l’emozione delle ragazze e dei ragazzi, soprattutto di chi proveniva da un’altra terra o era nato a Larino da genitori immigrati.
Pochi giorni fa, l’11 di questo mese di Agosto, la bella presentazione, a San Martino in Pensilis, di un dizionario ricco di oltre mille parole, tutte del XX secolo, raccolte e sistemate da un cultore appassionato, che ho avuto il piacere di conoscere, poco più di un mese fa, in occasione di una trasmissione di tg3Molise, Domenico Lanese (Mingo per i sammartinesi) e pubblicate grazie al contributo prezioso dell’Associazione Culturale La Grande Onda, presieduta da Giovanna Di Bello.
Un’operazione meritevole che oggi dà agli abitanti della città della carrese, dell’olio, nonché patria della mitica deliziosa Pampanella, un vero boccone di piacere e di bontà, la possibilità di ritrovarsi con il dialetto, un’appartenenza, e di riconoscersi nella musica che esso è capace di esprimere. Un’operazione pregevole che parla alle nuove generazioni e, con esse, al domani.
È in programma, mentre scrivo questa nota, la presentazione di un libro di poesie, con annesso CD, e di una Grammatica del dialetto di Fragneto Monforte, entrambi scritti dal prof- Antonio Vetere, il mio caro amico Tonino, che ho la fortuna di conoscere da una vita, grazie ai nostri zii, Antonietta e Lucio Antonio, fidanzati, e poi sposi, subito dopo la fine della guerra. So, per avuto in anteprima bozze di questo lavoro, che esso è il frutto di un’attenta, meticolosa ricerca, che rispecchia il carattere dell’autore.
Qualcuno dei lettori di questa mia nota dirà ma che c’entra Fragneto Monforte, il piccolo paese di fronte al Monte Taburno posto sulle colline che anticipano la valle dei grandi vini del Sannio, segnata dal fiume Calore, non lontano da Pietrelcina, in Provincia di Benevento? Intanto c’è da dire che tanta parte del Molise è Sannio, come una parte di Larino è Fragneto Monforte, per la presenza, nella prima metà del secolo scorso, di operai e contadini provenienti soprattutto da Fragneto, oltre che dai paesi ad esso limitrofi.
Contadini che hanno scelto le colline olivetate della città frentana, con la pianura preferita da famiglie provenienti da Casoli, il paese di fronte alla Maiella in Abruzzo. Gli operai erano tutti impegnati nel grande Molino Battista e nel Pastificio Colagiovanni, famoso allora per le sue 66 trafile di pasta, che lavorava a pieno ritmo per soddisfare la crescente domanda del mercato, nazionale internazionale. Quando Larino era, non solo, il cuore dell’agricoltura molisana, ma, anche, dell’agroalimentare regionale Intere comunità che, in un modo o nell’altro, hanno influenzato il dialetto larinese, uno dei 130 e più, che, un tempo, ancor più di oggi, raccontava meglio la storia del proprio territorio.
Questo risveglio del dialetto – tutto da alimentare per consegnarlo meglio alle nuove generazioni insieme con altri valori – coincide con una visione molto più attenta della preziosità e complessità del territorio, con i suoi valori e le sue risorse. Un modo per capire la stupidità dello spreco di questo straordinario tesoro, il territorio, l’unico che abbiamo. Non più spreco, ma attento utilizzo di un bene comune, cioè di tutti, mediante una nuova e diversa programmazione dello sviluppo. Uno sviluppo che mantiene e rafforza le risorse che il territorio ha, in modo da renderle investimento per il futuro e non pura occasione per pochi di accaparrarsene e distruggerle con la regola del “profitto per il profitto”, il solo credo del sistema neocapitalistico. E, per chiudere, le tante iniziative che portano a far comprendere la sacralità della terra, la madre terra, cioè la fonte assoluta della vita che, messa nelle mani di criminali, rischia ogni anno, e sempre più, di non essere più in grado di dare oltre quello che ha.
Bella e significativa quella dell’altra sera a Schiavi d’Abruzzo con la rappresentazione di un film documento “C’era una volta la Terra”, firmato da Ilaria Jovine, nipote di uno dei massimi scrittori del Novecento, Francesco Jovine di Guardialfiera, che racconta la terra, le mani degli uomini che la coltivano, gli incantevoli paesaggi rurali, il silenzio dei semi che cadono sulla nuda terra, il passo degli animali che vanno alla ricerca del cibo, il tempo perso nel mettere in un angolo l’agricoltura, cioè l’attività che, con l’uomo, ha curato la terra per oltre diecimila anni, fino a quando non è stato sostituito dalle grandi e possenti macchine, capaci di dare solo quantità e per un tempo breve, limitato, che non ha domani.
Anche la terra, proprio perché viva, ha bisogno di riposo e di sostanza organica per rigenerarsi e, così, continuare a dare cibo e biodiversità, cioè la vita.