La crisi dei partiti ha accentuato lo scollamento con i cittadini, mancano sedi di confronto, è cresciuta la disaffezione verso la politica, e si è accentuato il fenomeno dell’astensionismo fino a giungere a percentuali allarmanti. La frammentazione delle coalizioni col moltiplicarsi di liste civetta post-ideologiche sommata alla scarsa partecipazione al voto determina la vittoria di raggruppamenti minoritari lasciando aperto il problema di chi rappresenta chi nelle istituzioni. La seconda Repubblica con la deriva maggioritaria e la concentrazione del potere nelle mani di un uomo solo al comando nei comuni e nelle regioni, ha svilito il ruolo dei partiti già in crisi d’identità dopo l’avvento della globalizzazione e del dominio della finanza. L’invenzione delle primarie ha rallentato il naufragio della politica ma ha svuotato di senso l’iscrizione e la militanza in un partito visto che al voto possono andare tutti indistintamente con un’investitura diretta in capo ad una sola persona e non ad un soggetto collettivo.
La democrazia digitale introdotta dal Movimento 5 Stelle ha destato interesse e curiosità stante le molteplici opportunità offerte dalla nuove tecnologie informatiche in termini di diffusione del sapere, partecipazione informata e socializzazione dei processi decisionali. Ciò nonostante nelle recenti primarie digitali per l’individuazione del candidato a 5 Stelle per Palazzo Chigi su 50 milioni di elettori italiani hanno partecipato al voto 40 mila iscritti, un numero doppio a quello delle primarie del settembre 2011 per le regionali del Molise. Luigi Di Maio con 31 mila preferenze ha vinto le consultazioni ed ha avviato legittimamente la propria campagna elettorale per vincere le prossime politiche. In un quadro simile, ci si sarebbe aspettati un minimo di autocritica sul funzionamento dei partiti che non riescono più a intercettare e coinvolgere i cittadini, educandoli alla partecipazione attiva, alla capacità d’ascolto e al rispetto delle idee di interlocutori che la pensano diversamente.
E’ ovvio uno dei prodotti della crisi della politica, è la nascita del Movimento 5 Stelle, che non è la causa bensì l’effetto della degenerazione dei partiti. E non è giusto attribuire agli ultimi arrivati la responsabilità di una difficoltà globale che scontano tutti i paesi evoluti con torsioni nazionalistiche agitate ad arte da Trump, Putin, Erdogan o praticate con la Brexit o i referendum indipendentisti della Scozia, della Catalogna o del Lombardo-Veneto. Chi alza la bandiera della razza, del campanile, della religione e del territorio sostituisce il proprio vuoto di idee sui grandi temi planetari cavalcando le tifoserie dei localismi. Premesso per correttezza verso il Movimento 5 Stelle che la questione della crisi dei partiti è di ampia portata, trovo preoccupante il tono ed i contenuti delle affermazioni del possibile nuovo Capo del Governo sul ruolo dei sindacati.
Chi ha una trave nel proprio occhio si concentri sul rinnovamento della politica restituendogli credibilità, dignità, attrattività e passione civile. La libera adesione di chi lavora ad un sindacato è un diritto sancito in Costituzione e non può essere messo in discussione con tanta approssimazione e leggerezza. Prima Berlusconi e poi Renzi hanno già assestato colpi durissimi al mondo del lavoro con l’abolizione dell’art.18, il taglio al Fondo Patronati e ai CAAF, col Jobs Act e con le misure di precarizzazione del lavoro. L’annuncio di Di Maio lo colloca nello stesso solco culturale, e in un’Italia in cui la competizione politica si gioca tra tre destre si intravedono tempi bui per i diritti dei lavoratori. Mala tempora currunt !
Michele Petraroia