Accade, è storia di questi tempi, che gli eventi di vita contemporanea stiano acquistando una dimensione qualitativa tale da indurre a riflettere, individualmente e collettivamente, sulle scelta da prendere per essere, ciascuno per la propria parte, interpreti delle sfide del cambiamento. E’ doveroso riflettere sul sé e sul sé più allargato, il sé che diventa Comunità, quale soluzione doverosamente percorribile, di rafforzamento di una identità collettiva, convergente verso una identità comune di appartenenza. Il contesto di questi giorni è Molise si Molise no. Per fugare il campo da possibili cadute di identità occorre ricordare quello che eravamo prima in cui il livello dei redditi soprattutto agricoli, percepiti dalla popolazione “molisana” residente, era inferiore del 66% alla media della popolazione italiana. Il cambio di passo avviene proprio con la scelta giusta di regionalizzazione, cambiamento economico strutturale per il nostro territorio.
Ed allora è doveroso ragionare in termini di identità invece che smarrirsi in un percorso di convergenze ignote, con occasionali aggregati che spartiscono il nostro territorio per convenienze di bacino demografico o altro. Ci dicono che i numeri fanno democrazia. Invece no! L’Identità comune non si costruisce ma si genera, non si dispone ma si accetta. E’ questo il principio comune della democrazia in cui la dignità data alla partecipazione testimonia una volontà collettiva, ineludibile elemento e regola di democrazia appunto. Ed allora arguti esperimenti di geografia nazionale, espressione di solitari punti di vista, non fanno democrazia, tediano quanti con la propria vita quotidiana testimoniano il volerci stare nella dimensione di comunità di appartenenza, quella vera per intenderci, in cui la globalizzazione si regge solo con il localismo di comunità. Ci hanno fatto intendere che per questione di spreed o di PIL nazionale e locali, invece no, solo per regole di burocrazia polverosa nostrana e europea che si impongono dimensionamenti artificiosi ed astratti e per questo caducevoli. Del resto se così non fosse esperienze come quella americana dell’Ohio e della sua capitale Deyton non si giustificherebbero. Lezione di democrazia anche questa in cui investendo su una territorialità demografica assai modesta si è stati in grado di generare sviluppo economico. Ed il primo ad investire, credendo nel futuro, deve essere lo Stato. E’ da queste scommesse che si avvia il processo di attrazione territoriale. Chiudere le istituzioni rappresenta per il territorio lo spegnimento della luce di casa perché si è scelto da andare altrove e per sempre.
Questo vale tanto per le Regioni che per le Province. Ciò non vuol dire che tutto deve essere lasciato così come era; doveroso è l’ammodernamento del sistema istituzionale, arricchendolo di trasparenza e di buona amministrazione, necessari per rafforzare le politiche di governo. Ma è altra cosa quella della demolizione istituzionale, giustificata da fantomatiche spending review, più interessate a tagliare che a produrre.
Abbandonare la scelta della presidialità istituzionale genera l’ulteriore spopolamento e quindi l’impoverimento di sempre più crescenti parti di territorio nazionale. Domandiamoci se è questo quello che vogliamo. Sicuramente no! Ed allora perché tutto ciò? L’obiettivo è quello di spogliare la democrazia delle sedi istituzionale di partecipazione, in cui il territorio è il solo e vero referente dei bisogni e dei comuni obiettivi di azione. In questa logica nuocciono i presidi di democrazia. Invece, occorre comprendere che non c’è globalizzazione senza localizzazione, non si costruisce il tutto senza radici, senza concrete esperienze di partecipazione, in cui le periferie territoriali diventano centro di azione del cammino futuro. Occorre crederci per esserci. Questo percorso non ci risparmierà la fatica del costruire ma ci regalerà la speranza nel futuro.
Angiolina Fusco Perrella
Giuseppe Sabusco