Il Lavoro che uccide

Esiste un lavoro, al quale l’umanità intera aspira, ed è quello nel quale la persona si realizza, che produce e garantisce la sua libertà e nella migliore delle ipotesi anche quella di altri.

UN “Lavoro” che non solo salva la persona umana, ma ha la virtù di darle la felicità.

Lo scherno o meglio la beffa sta nell’omonimia tra questo lavoro e il lavoro disumanizzante dello schiavo, che oggi potremmo incarnare in Satnam Singh, l’indiano morto , con il braccio trinciato, svolgendo il lavoro dei campi, a Cisterna in provincia di Latina, una persona ridotta a strumento, o addirittura una persona che per mezzo del lavoro massacrante viene uccisa, accompagnando le percosse con esortazioni e incoraggiamenti, come fanno i carrettieri coi cavalli volenterosi.

I SATNAM SINGH sono circa trecentomila, sfruttati e nell’ombra gente inesistente per la legge, per lo stato, per le tasse, da qui si dimostra la totale inesistenza dello Stato sul territorio.

Ho tentato più di una volta nei vari incarichi che ho avuto ai tavoli ministeriali di esortare lo stato a presidiare il territorio, non è possibile che esistano centinaia di migliaia di persone invisibili che lavorano nei campi o nelle cucine senza che le autorità abbiano conoscenza della loro esistenza, se non quando succedono fatti di questo genere.

Il lavoro come sofferenza (lavoro: fatica, travaglio, dolore) che si presta a essere inflitta come pena, come castigo.

Sono milioni le persone che attraverso il lavoro, nell’altra sua accezione, infernale, stanno per percorrere l’ultimo tratto del percorso loro riservato verso lo sterminio.

Il lavoro che non soltanto affatica mortalmente ma è progettato e inflitto per affermare l’inferiorità della persona che lo svolge, punirla, ridurla al rango di bestia:

Un lavoro che non lascia spazio alla professionalità, ma è quello delle bestie da soma, tirare, spingere, portare pesi, piegare la schiena sulla terra, anche il sorvegliante più benevolo tratta il lavoratore come una bestia:

Pane, castigo e lavoro per lo schiavo, fallo lavorare perché non stia in ozio, obbligalo al lavoro come gli conviene, e se non obbedisce stringi i ceppi, con lo scopo di degradare la persona, di disumanizzarla, per cui, il lavoro-castigo “non deve lasciare spazio alla professionalità”, alla dignità, all’umanità, ma per il padrone deve essere pura fatica, al di sotto della dignità che ha un’ animale.

Si può e si deve combattere perché il frutto del lavoro rimanga nelle mani di chi lo fa, e perché il lavoro stesso non sia una pena; ma l’amore o rispettivamente l’odio per l’opera sono un dato interno, originario, che dipende molto dalla storia dell’individuo, e meno di quanto si creda dalle strutture produttive entro cui il lavoro si svolge, dove si conferma ancora una volta che le chiavi della felicità non dobbiamo cercarle fuori, ma dentro noi stessi, non è facile, ma se penso alla mia storia personale è possibile(presto la racconterò).

Alfredo Magnifico

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