Pietro Colagiovanni *
Matthew Rankin è un regista sperimentale canadese all’esordio sul lungometraggio con “The twentieth century” del 2019, film che ha vinto il premio della Federazione Internazionale della critica cinematografica al Festival di Berlino. L’opera è fondata sulla storia del Canada del ventesimo secolo, in particolare sulla figura, effettivamente esistita, del primo ministro William Lyon Mackenzie King al potere per ben ventidue anni, sia pure non consecutivamente.
Ma non si tratta affatto di un film storico, benchè altre figure realmente esistite si affiancano al protagonista Mackenzie King. La narrazione è spostata in un mix di ambientazione tra un film di fantascienza anni 50, un film di Fritz Lang ed elementi da cartoni animati il tutto insaporito da protagonisti che sembrano presi, quasi di peso, da un’opera dei Monty Python. La trama narra di questo giovane politico che, spinto da una madre ossessiva e ambiziosa, punta tutta la sua vita e le sue carte sulla elezione a primo ministro del Canada.
Il racconto è, però, totalmente surreale ed è pieno di riferimenti ad una sessualità repressa analizzata da un psicanalista militante. Per dare ulteriormente il senso delle pulsioni sessuali represse che animano la scalata al potere di King e che animano tutta la scena politica, spesso feroce, del Canada i caratteri femminili, sono quasi tutti interpretati da uomini, con un mix trans gender anche qui fortemente evocativo della poetica dei Monty Python.
Al netto di tutto questo pesante apparato scenico teatrale il film ha una morale, semplice e sconfortante: Mackenzie King, come gli viene detto dal governatore in una illuminante battuta del film, è un uomo privo di qualsiasi morale, disponibile a tutto pur di arrivare alla sua meta di potere, capace di calpestare ogni persona per arrivare all’ambito risultato finale. Che alla fine raggiunge, in un finale lugubre di un film sostanzialmente lugubre. L’opera, come si può capire, non è di facile visione e, parlando in modo analitico della storia canadese di fine XIX e inizio XX secolo, non è neanche semplice da capire per un non canadese. Ma non è questo il problema più grande del film, suggestivo ma non ben riuscito.
Il punto è che, ad esempio. rispetto al mostro sacro del cinema canadese Guy Maddin le evocazioni di stili e ambientazioni cinematografiche diverse (vedi il già recensito “Stump The Guesser” di Maddin, gioiellino di neo cinematografia sovietica) non sono centrate e riuscite perchè troppo mescolate tra loro. Alla fine “The Twentieth Century” non è un’opera di fantascienza pulp, non è un film storico, non è un remake dell’espressionismo tedesco e non fa neanche ridere come fa ridere la surreale e peculiare comicità dei Monty Python.
Ci sono gli elementi di tutti questi generi ma l’amalgama non è vincente. Resta la narrazione morale in base alla quale il politico per avere successo deve essere intimamente corrotto e disposto a tutto. Per dire questa banalità, però, tanto dispiego di mezzi e suggestioni è francamente ridondante ed eccessivo.
Voto 2,5/5
*imprenditore, giornalista, fondatore e amministratore del gruppo Terminus
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