Pietro Colagiovanni*
Amit Dutta è uno dei più noti registi sperimentali indiani, con un universo espressivo molto particolare e suggestivo. Un regista che non ha mai conosciuto canali distributivi di massa ma che qualcuno descrive come uno degli autori più potenti del cinema indiano.
Qui siamo lontani anni luce da Bollywood e le sue produzioni di massa, ricche di balletti, di musiche e di scintillanti storie romantiche, produzioni conosciute ormai anche in Occidente. No, qui siamo in tutt’altra dimensione, intimistica, filosofica, per certi versi anche mistica. The seventh walk è un film del 2014 e forse quello che maggiormente esprime le particolarità del suo cinema.
L’opera praticamente non ha alcuna trama, se non qualche leggera inserzione fiabesca o favolosa, e i suoni sono, tranne qualche rara eccezione, quelli della natura o della musica, ipnotica e suggestiva, della rudra veena, una cetra a bastone la cui timbrica automaticamente ci porta in India. I 72 minuti di film sono ambientati prevalentemente in una casa, immersa in un bosco, meglio una foresta, che si stende a perdita d’occhio. Il protagonista è un noto artista indiano, il pittore Paramjit Singh di cui si narra il processo creativo.
Singh ha una poetica tutta centrata sulla natura e alla sua forza, legata alla sua terra di origine, Amritsar in Punjab nell’estremità nordoccidentale dell’India. All’interno di questa linea narrativa si inseriscono alcuni innovazioni artistiche di Dutta, quali le giustapposizioni tra i quadri e la natura reale e il ritmo cadenzato delle riprese ed alcune soluzioni favolose, come la ragazza che vola, la casetta che appare nella cavità di un albero o il sasso che si alza dal fiume in cui era cascato. Il risultato finale è un film lontano dalle linee espressive della cinematografia occidentale, quelle che, pur nella loro declinazione più sperimentali, conosciamo bene.
Qui siamo in un altro mondo, con un altro ritmo e soprattutto un’altra filosofia. Dutta d’altronde non è un tradizionalista anzi. Un noto critico indiano lo ha chiamato un modernista, benché con mezzi diversi. Ma un modernista e un modernizzatore di una tradizione culturale, artistica, religiosa e filosofica che non è quella occidentale ma quella, millenaria anch’essa, indiana. Il film solo per questo motivo è un film potente e importante.
Dietro l’apparente nulla della sua narrazione si svela l’intera trama dell’universo, la profonda connessione che unisce ogni singolo atomo, l’uomo con la natura, gli esseri viventi con il vento e il passare delle stagioni. La spiritualità indiana è notoriamente una spiritualità che considera l’universo come un unico, singolo organismo e Dutta ha la grandissima abilità di declinare il tutto attraverso una macchina da presa. Siamo di fronte ad una opera di grande importanza, un’opera profonda e densa che anche nell’uso di soluzioni filmiche contemporanee resta nel perimetro di un discorso sul tutto e sull’arte come rappresentazione e interpretazione del tutto.
Un film, quindi, bello, molto profondo e molto interessante.
Voto 4/5
*imprenditore, giornalista, fondatore e amministratore del gruppo Terminus
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