di Pietro Colagiovanni*
Agnes Varda è una delle registe più importanti e significative della nouvelle vague cinematografica francese (quella di Godard, Truffaut, Rohmer e Chabrol per capirci) deceduta recentemente. Il film di cui parliamo è del 1965 ed è chiaramente un classico, uno splendido film. E, come tutti i classici, è stato copiosamente e abbondantemente recensito, discusso e analizzato. Ciononostante la sua visione impatta fortemente ancora oggi, suscita reazioni, provoca domande, in alcuni casi inquietanti e profonde.
Ed è straordinario tutto ciò se si considera che il film ha superato il mezzo secolo di vita e la storia è tutta giocata sulla contemporaneità di allora. Ma un classico si chiama così proprio per questo e “Le Bonheure” (il titolo originale) classico lo è a tutti gli effetti. La trama è semplice. Un falegname, giovane e aitante, ha una famiglia modello della piccola borghesia, con una bella moglie e due figli piccoli.
E’ un lavoratore esemplare presso la bottega dello zio. Insomma un quadretto idilliaco, che ricorda il Truman show di tanti anni dopo. Un giorno conosce un’impiegata delle poste, che praticamente è la fotocopia più truccata della moglie (un altro colpo di genio della Varda: le amanti, è dimostrato, sono spesso simili alle mogli o alle compagne tradite). Lei mostra simpatia per lui, lui per lei e alla fine vanno a letto insieme. Il giovanotto è senza malizia, la cosa non l’aveva cercata e quello che capisce è semplicemente che è felice (da qui il titolo francese).
La sua teoria enunciata con naturalezza al nuovo amore è disarmante: sono molto felice con mia moglie e adesso che ho conosciuto te, che mi rendi felice, sono ancora più felice. Una concezione dell’amore matematica, aritmetica si potrebbe dire. Il protagonista felice confessa il tutto alla moglie, anche perchè non intende dire bugie e cerca di convincerla, durante una gita nel bosco a condividere la sua accresciuta felicità, sopportando la presenza di un’amante.
La donna gli dice di sì, fanno l’amore e poi sparisce. La trovano in fondo al lago, probabilmente (ma non c’è la certezza) suicida. Dopo di chè c’è il classico passaggio del lutto più o meno straziante, del dolore, della vita che lentamente riprende. E alla fine, superata la fase di transizione, l’amante rimpiazza la moglie.
Il film si conclude nello stesso modo in cui era iniziato: nel bosco (il prato dell’amore) con una famiglia che si tiene amabilmente per mano. L’unica differenza nel quadretto familiare è la moglie, che rispetto all’inizio è cambiata. Oltre alla complessità della regia, che volutamente appiattisce ed esaspera i caratteri psicologici dei protagonisti (il falegname sembra il Forrest Gump della trombata, le donne sono succubi all’inverosimile del ruolo maschile, i bambini ad orologeria vanno a dormire a comando senza proteste) ci sono, rilevantissime, le altre componenti del film.
I colori, che non sono mai neutri e alterano la normale visività; il montaggio, a volte ruvido, sempre efficace, suggestivo; la musica classica di Mozart che alla fine diventa cupa, suonata con toni inquietanti, quasi distonica. E’un film che va ben oltre la narrazione di un tradimento con epilogo tragico. C’è la componente femminista, c’è la critica alla famiglia borghese da cartolina che maschera il vuoto morale più assoluto, c’è la forza delle passioni, c’è la quotidianità fatta di piccole cose di pessimo gusto, c’è di tutto. Un ‘opera che non ti fa mai smettere di pensare, un film di una complessità estrema che non risente del peso degli anni: un capolavoro insomma.
Voto: 4,75/5
*imprenditore, comunicatore, fondatore del gruppo Terminus
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