Dal blog di Pasquale Di Lena
Chi ha la pazienza e la bontà di leggerci sa che ci avventuriamo spesso, in un mondo sempre più globalizzato, a spiegare il significato di territorio e, quale miniera dalla quale è possibile estrarli, illustrare i suoi valori e le sue risorse.
A sottolineare che esso è, insieme ad altri elementi, l’origine della qualità e l’espressione della diversità dei caratteri organolettici di un dato prodotto. Due aspetti che identificano un’insalata o una mela, un vino o un olio, un formaggio o un salume, con un luogo ben preciso, l’origine appunto, che serve a distinguerlo da un altro prodotto simile, e, quindi, a riconoscerlo. Un ragionamento che spiega il terroir dei francesi; il riconoscimento, nel secolo scorso, delle denominazioni dei vini, prima da parte della Francia, e poi, nel 1963, dell’Italia, per arrivare agli inizi degli anni ’90, al riconoscimento da parte della Cee/Ue, delle indicazioni geografiche Dop e Igp, riservato al resto dei prodotti agroalimentari.
Qualità e diversità in conflitto permanente con quantità e omologazione. Come dire “la storia si ripete” ed a confermare questa verità ci viene in aiuto Orazio Olivieri, autore di un interessante libro, uscito alla fine dello scorso anno per la Donzelli editori, “L’Età delle spezie – Viaggio tra i sapori dall’antica Roma al Settecento”, quando dedica un’intera pagina a la “Tipicità delle spezie” e racconta “che i Romani avevano una particolare predilezione per quelli che oggi definiremo prodotti tipici. Molti autori latini ne parlano con dovizia: Orazio si muove con sicurezza tra l’olio di Venafro e il garum di pesce iberico. Valerio Marziale menziona le olive del Piceno e fa sfoggio delle sue conoscenze dei vini a denominazione di origine; perfino Giovenale cita con compiacimento il capretto di Tivoli o le pere di Segni. Già i greci avevano mostrato di essere sensibili all’argomento. Il puntiglio con il quale Archestrato di Gela (in Hedypatheia), da buon gastronomo affronta il tema della qualità delle diverse specie di pesce in base ai luoghi di provenienza ne è l’esempio più lampante. Ma citazioni e riferimenti non mancano neppure in opere concepite al di fuori della cerchia degli addetti ai lavori”. A questo punto l’autore si pone la domanda “ Dov’è la differenza”? E continuare affermando “Semplicemente nel fatto che a Roma i valori identitari, non di rado veicolati dalla perizia degli intenditori, col tempo assumono una connotazione ideologica …con una diffusa esigenza di distinzione, che trova spesso risposta nella scoperta o riscoperta di vere o presunte peculiarità territoriali”.
Dopo aver ricordato che “nell’Atena di Pericle l’ampiezza del’offerta di prodotti alimentari non va al di là di una comprensibile gratificazione” scrive che “nella Roma post repubblicana essa è la base sulla quale i ceti dominanti, per non essere assimilati al volgo ignorante, sono chiamati a dimostrare competenze e capacità di selezione”.
Sembra oggi! E, infatti, l’autore chiude questa pagina sottolineando che “Ognuno può vedere il parallelo con quanto succede nell’odierna società globalizzata, dove il favore accordato ai prodotti del territorio nasce da una reazione alla crescita dell’omologazione dei consumi e si impone con questo imprinting presso strati diversi della popolazione. Nessuna meraviglia quindi: anche la Roma di duemila anni fa è, sia pure nei limiti del mondo allora conosciuto, una società globalizzata, e, come tale, avverte una forte spinta alla ricerca del “tipico”, in una continua tensione tra il vuoto conformismo modaiolo e l’autentico interesse per la diversità”.
Una diversità che racconta la ricchezza dei territori che compongono L’Italia e, quindi, parla di storie, culture, tradizioni, oltre che di ambienti e paesaggi. Una diversità aggredita ogni giorno da imprese potenti nel campo della produzione e distribuzione – odiose le sottomissioni e le complicità di chi dovrebbe essere a guardia del pollaio e non diventarne la volpe – perché la quantità diventi valore al pari dell’omologazione. Penso a sponsor insospettabili degli uliveti superintensivi di marca spagnola, un pugno nell’occhio al nostro straordinario primato della biodiversità olivicola; al panino della più grande catena mondiale di ristoranti, l’esempio più eclatante dell’omologazione, composto con i nostri prodotti dop e igp, ma non per promuoverli bensì per banalizzarli e, con essi, banalizzare l’origine, il territorio, il solo nostro grande e irripetibile tesoro.
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