Di notevole attualità appare, oggi, il fenomeno della criminalità minorile. Le pagine di cronaca giudiziaria, sempre più spesso narrano con dovizia di particolari comportamenti di sicura rilevanza penale posti in essere dai nostri “ragazzini” e purtroppo molto spesso in danno a loro coetanei. Si pensi, a mero titolo esemplificativo, ai tristemente noti fenomeni di bullismo e agli episodi di violenza che ad esso si accompagnano. Lo sdegno sociale di fronte a questi “baby criminali” è forte, e si accompagna all’incredulità e ad un naturale senso di impotenza: ci si chiede come un minore possa essere capace di tanta crudeltà, ma ci interroga anche e soprattutto sulla sua sorte giudiziaria, sulla risposta dell’ordinamento a siffatti deprecabili condotte.
In questo delicato contesto, si impone una riflessione sul concetto di imputabilità del minore. Come è noto, l’imputabilità in generale è una condizione personale del reo che consente di attribuire all’autore del fatto di reato la relativa pena prevista dall’ordinamento. Perché un soggetto possa essere punito è necessario che al momento della commissione del reato, egli sia capace di intendere e di volere: il soggetto, cioè, non solo deve rendersi conto della realtà e delle proprie azioni (capacità di intendere), ma deve altresì avere la capacità di autodeterminarsi rispetto ad esse, sulla base di tali presupposti percettivi (capacità di volere).
Orbene, la minore età costituisce una causa che esclude in radice o diminuisce l’imputabilità, a seconda dei casi. Il nostro ordinamento, fissata la maggiore età al compimento del diciottesimo anno, ai fini dell’imputabilità del minore, individua un criterio cronologico. In sintesi, fino a quattordici anni il minore non è mai imputabile, perché nei suoi confronti è prevista una presunzione assoluta di incapacità, senza cioè necessità di prova contraria. Per i soggetti di età compresa tra i 14 e i 18 anni, invece, il codice impone un accertamento caso per caso della capacità di intendere e di volere.
La scelta del legislatore affonda le proprie radici nella considerazione che non necessariamente un minorenne, sebbene autore concreto di un fatto di reato, ha raggiunto uno sviluppo psichico ed emotivo tale da consentirgli di comprendere il valore (o meglio il disvalore) etico e sociale delle proprie azioni. Del resto, come sarebbe possibile prevedere una punizione finalizzata alla rieducazione del reo – come impone la nostra Carta Costituzionale – se il reo stesso, in ragione della sua età e del suo grado di maturità non è in grado di stabilire cosa è giusto e cosa non lo è? Se ci limitassimo semplicemente a seguire l’orientamento proprio delle scienze psicologiche dato che l’età della maturazione psichica non è uguale per tutti ma varia da persona a persona, si dovrebbe procedere sempre e comunque ad un accertamento caso per caso. Ci sono però esigenze giuridiche di certezza, di uguaglianza e praticità dell’accertamento che impongono l’adozione di un criterio del genere, il quale, sulla base dei dati offerti dall’esperienza, deve essere altamente presuntivo della raggiunta maturità.
Venendo al dato testuale, l’art. 97 c.p. stabilisce che “Non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, non aveva compiuto i quattordici anni”. La norma è chiara, non lasciando adito a dubbi interpretativi: in ogni stato e grado del procedimento il giudice dovrà dichiarare con sentenza il non luogo a procedere qualora accerti che l’imputato sia minore di 14 anni (così art. 26 d.P.R. n. 448 del 1988).
Tuttavia, data la forte presenza nel nostro Paese di giovani stranieri di immigrazione irregolare privi di documenti nonché di nomadi, non sono infrequenti casi in cui permangono dubbi sulla concreta età dell’imputato: come ci si comporta in queste ipotesi? L’art. 8 del D.P.R. n. 448/88 prevede che, in caso di incertezza sull’età minore dell’imputato, il giudice disponga perizia (di solito si tratta di esami radiologici ed antropometrici) e che, ove il dubbio permanga anche dopo la perizia, l’età sia presunta minore. La disposizione trova applicazione non solo quando si tratta di stabilire se il ragazzo è o meno minorenne, ma anche quando si deve accertare se egli ha meno di quattordici anni, nel momento in cui vi sono dei motivi per ritenere che la sua età possa essere inferiore a tale limite.
È interessante notare, a riguardo, che in Italia il passaggio dalle disposizioni del codice Zanardelli a quelle del codice Rocco, tutt’oggi vigenti, ha determinato un innalzamento della soglia minima di imputabilità da 9 a 14 anni mentre recentemente, da più parti si invoca un’inversione di marcia, in considerazione del fatto che in una società in continua evoluzione culturale e tecnologica, anche la capacità di intendere e di volere può essere raggiunta prima. Diverse e più complesse appaiono le questioni legate all’imputabilità del soggetto di età compresa tra i 14 e i 18 anni.
Come già accennato, l’art. 98 comma 1 c.p. stabilisce che “è imputabile chi, nel momento in cui ha ommesso il fatto, aveva compiuto i quattordici anni, ma non ancora diciotto, se aveva capacità di intendere e di volere, ma la pena è diminuita”.
Ciò significa che rispetto a questi soggetti non opera alcuna presunzione, né di capacità né di incapacità. Se si esclude ogni presunzione, la conseguenza più immediata è che dovrà necessariamente intervenire, di volta in volta, l’accertamento in concreto della capacità di intendere e di volere attraverso l’esame del soggetto. Con specifico riferimento ai minorenni, la capacità di intendere e di volere viene intesa come sinonimo di maturità. In realtà si tratta di un termine che non trova espressa previsione nel codice ma che ci consente di sottolineare che l’accertamento relativo all’imputabilità del minore implica necessariamente considerazioni sul suo grado di sviluppo intellettivo, sulla formazione del suo carattere, sulla sua capacità di comprendere l’importanza di certi valori etici, di dominare i propri impulsi, di distinguere il bene dal male, ciò che è lecito da ciò che non lo è e, non da ultimo, sulla sua capacità di orientare e determinare le sue scelte comportamentali sulla base di tutto ciò. Ovviamente tali considerazioni vanno effettuate con stretto riferimento al reato commesso e con immediatezza rispetto ad esso poiché, in tutta evidenza, il decorso del tempo incide sulla maturazione della persona.
L’accertamento da parte del giudice sulla capacità di intendere e di volere del minore ultraquattordicenne, poi, non può prescindere da specifiche ricerche sui suoi precedenti personali e familiari, sotto l’aspetto fisico, psichico, morale ed ambientale; a tal fine non è richiesta necessariamente un’ indagine tecnica o l’ausilio di specialisti, ben potendo il giudice operare le sue valutazioni sulla base della diretta osservazione della personalità del minore, nonché dello studio del suo comportamento nell’arco temporale che abbraccia la commissione del fatto di reato e si spinge fino al contegno processuale tenuto dal minore stesso.
Peraltro, proprio in ragione di quanto fin qui detto, può succedere che lo stesso soggetto minorenne sia ritenuto imputabile solo in relazione ad alcuni tipi di reato: del resto, rispetto ad alcuni reati, quali quelli contro la persona e la proprietà, è sufficiente un grado di maturità diverso ed inferiore rispetto a quello che consente al minore di rendersi conto del disvalore sociale e delle conseguenze di altri comportamenti, anch’essi penalmente rilevanti. Così, come chiarito dalla Suprema Corte, “quando si tratta di delitti particolarmente gravi, quale l’omicidio – la cui contrarietà alle norme della civile convivenza è necessariamente tra le prime ad essere assimilate dalla mente umana – deve ritenersi sufficiente per il riconoscimento della capacità dell’infradiciottenne, in assenza di fattori patologici, uno sviluppo intellettuale anche non molto progredito” (Cass. Pen. N. 6535/1979).
Ciò detto, giova qui anticipare che il minore ritenuto imputabile è oggetto di una specifica disciplina processualpenalistica, recata dal già citato d.P.R. n. 448/88, che descrive e disciplina un processo incentrato non solo sui fatti, ma soprattutto sulla personalità dell’imputato minorenne, atteso che con riferimento ad un soggetto in fieri si fanno ancor più pressanti le istanze di rieducazione e reinserimento in società.
Dr.ssa Annarita Di Lecce – Studio Legale Tolesino
Criminalità minorile: l’imputabilità del minorenne
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