Con la pubblicazione del decreto del 9 marzo 2020 “Io resto a casa”, fino ai successivi che sono seguiti al primo, siamo stati costretti a modificare le nostre abitudini di vita quotidiana, per provare a contenere la Pandemia del Covid 19. Da quel momento, in pochi giorni, sembrano essere aumentati i sentimenti di paura e di insicurezza.
In questi giorni ho letto molte riflessioni il cui focus era sui paradossi che stiamo vivendo. Vorrei aggiungerne un altro che riguarda proprio l’idea di “sicurezza”.
Durante la divulgazione del decreto “Io resto a casa” Conte ha detto: “Siamo consapevoli di quanto sia difficile cambiare le nostre abitudini … Tutti dobbiamo rinunciare a qualcosa per il bene dell’Italia e funzionerà solo se collaboriamo insieme.”
Lo Stato ci ha chiesto quindi di proteggerci e di proteggere gli altri restando a casa.
Allo stesso modo in questi giorni mi sono chiesta: “Ma a casa tutti noi siamo al sicuro? Che vuol dire essere al sicuro? Che vuol dire proteggersi?”
Queste riflessioni nascono sicuramente dal contesto lavorativo in cui opero, il Centro Antiviolenza Liberaluna e in cui, da psicologa clinica, penso alle tante donne che, pur “stando in casa propria” nella modalità stabilita dai decreti e auspicata nella vita quotidiana, sono in realtà costrette a vivere in uno stato di “continua allerta” che le pervade in ogni azione e in ogni attività quotidiana tra le mura domestiche. Una condizione che limita il loro modo di comportarsi, di pensare, il loro modo di dire qualcosa e soprattutto la scelta della persona a cui dirlo. L’attenzione a tutti questi aspetti è continua e logorante. Questo perché i rapporti violenti non lo sono di fatto in maniera continuativa ma, al contrario si può passare dal vivere un’attenzione amorevole da parte del partner a subirne un comportamento violento. Si può creare cioè uno stato di tensione che rischia di degenerare con un atto violento. La caratteristica predominante nei rapporti di coppia in cui viene agita la violenza è proprio l’intermittenza dei comportamenti violenti. Non si trova sempre una ricorsività ciclica. La vittima di violenza vive in un perenne stato di ansia, in cui non si conosce mai né il tempo né la ragione dell’aggressione.
È proprio la condizione episodica e non continuativa dei comportamenti violenti una delle motivazioni più rilevanti che induce le vittime a rimanere in casa e non cercare di uscirne.
Dobbiamo provare a pensare alla violenza come a un’esperienza che acquista significato solo nella coppia che la vive. Questo significato è intimo e complesso, e per questo difficile da condividere con qualcuno che sia esterno alla coppia. Le parole acquistano senso all’interno della relazione: la gelosia viene interpretata come amore, il controllo come protezione. I nuovi significati nascono all’interno della coppia e rendono prigioniera la vittima dell’idea di “poter controllare il comportamento violento”.
Nell’emergenze che attualmente stiamo vivendo tutti si viene a rafforzare il parossismo della violenza psicologica nella relazione.
Pensiamo alle strategie usate dal “maltrattante” e riflettiamo su questi comportamenti messi in atto nei confronti della “vittima”. L’isolamento è uno dei metodi: non ci riferiamo al solo isolamento fisico, ma anche a quello relativo alla comunicazione. Spesso, in questo senso, accade che il maltrattante cerchi di limitare il più possibile gli scambi comunicativi della vittima con il suo contesto più ampio, con la rete familiare o amicale, producendo così un isolamento e quindi l’impossibilità di attivare quelle che possono essere definite “risorse protettive”. La limitazione è relativa anche all’immagine che la vittima ha di sé come rispecchiata e vista dagli altri. Alla donna viene rimandata solo la percezione che il maltrattante ha di lei, senza che abbia la possibilità di avere altre valutazioni o altri riscontri con cui confrontare la realtà. La persona maltrattata ha, quindi, una lettura univoca non arricchente della propria immagine. La realtà che vede è solo quella conosciuta tramite gli occhi del maltrattante che in questo modo rinforza il proprio potere su di essa.
Nelle dinamiche relazionali di queste coppie quindi predominano le transazioni con caratteristiche di disconferma nei confronti della vittima, tramite cui cessano di essere inviati e ricevuti feed-back sull’immagine del sé. La disconferma può avvenire rispetto alla sfera emotiva, sessuale o sociale.
Cresce in questo modo il sé del maltrattante e viene colpito quello della vittima. Quest’ultima vive una confusione tra ciò che percepisce come “giusto e atteso” e ciò che le viene imposto dalla figura del maltrattante. Per sopravvivere all’interno della coppia, quindi, la vittima accetta la lettura del maltrattante facendola sua: “Forse ha ragione lui, forse sono io che sbaglio”.
Le vittime che incontriamo al centro antiviolenza spesso propongono un’interpunzione sull’altro che sembra essere per loro più rassicurante. Hanno perso ormai la capacità di vedere se stesse con occhi diversi rispetto a quelli di chi le maltratta. Non riescono più in questo senso a vedersi come sono realmente.
Frequentemente il maltrattante, inoltre, mette in atto dei comportamenti finalizzati a esercitare potere sull’altra persona: controlla, umilia, spaventa e denigra la vittima. L’obiettivo è quello di privarla della sua autostima, al fine di sottrarle qualunque possibilità di scelta libera.
“La relazione di potere, infatti, è una relazione asimmetrica, di disuguaglianza, meglio descrivibile secondo una causalità lineare tra un aggressore e una vittima che necessita di un controllo sociale, che possa far cessare l’abuso.” (P. Beltrando L. Boscolo L. 1996)
Vediamo, inoltre, come queste coppie siano caratterizzate da una modalità di relazione che porta alla riduzione dell’autonomia, poiché i membri della coppia interagiscono rigidamente. La violenza è mantenuta nella relazione da un maltrattante, che costantemente nega e minimizza le sue azioni violente e minacciose, e da una vittima che non riesce a uscire dal circuito della violenza, perpetrandone continuamente le dinamiche in cui è coinvolta.
La situazione di violenza all’interno della coppia si complica maggiormente nel momento in cui sono presenti dei figli, in quanto frequentemente vengono utilizzati come dei mezzi di ricatto del maltrattante nei confronti della vittima. A questo facciamo riferimento quando ci capita di accogliere una donna al centro antiviolenza e di sentirci rivolgere come una delle prime domande “Rischio di perdere i miei figli?”
In questo caso si nota come ridimensionata la capacità di valutazione nel comprendere che la richiesta di aiuto è la modalità migliore per mettere in sicurezza i figli e se stessa, lontano da un ambiente di coppia disfunzionale.
Come A.P.S. Liberaluna Onlus che gestisce il Centro Antiviolenza Liberaluna, riconosciuto dalla Regione Molise e autorizzato dal Comune al funzionamento, cerchiamo di ascoltare queste donne e farle riflettere sul significato di “proteggersi” e di “avere potere”.
In un paradosso mostriamo alle donne che dovranno leggere la parola “potere” in una nuova ottica. Dopo aver sperimentato e subito, alcune di loro per diversi anni, il potere del maltrattante sulla propria pelle, dovranno ora sperimentare il loro potere inteso come possibilità e risorsa.
Vengono incoraggiate quindi a parlare, a esprimere il loro punto di vista e i loro bisogni, i loro desideri e le loro decisioni, dopo aver vissuto per tanto tempo nel silenzio e nell’impossibilità di decidere.
In questi giorni, nella situazione di emergenza che stiamo vivendo tutti a causa del Covid 19 che ci costringe all’isolamento domestico, il nostro centro antiviolenza ha accolto la richiesta di aiuto di una donna che, nonostante il decreto del Presidente del Consiglio Conte (quindi una persona a cui è stato conferito un “potere”) ha scelto di esercitare il suo “potere” di scelta per la sua sicurezza chiamando il nostro numero verde 800 642 367. La casa che avrebbe dovuto accoglierla e proteggerla, come è successo a molti di noi, era è invece il luogo dove questa donna si sentiva meno sicura. Questo rappresenta una soddisfazione per il lavoro che il nostro centro antiviolenza svolge.
Forse su questo potremmo tutti iniziare a riflettere.
Dott.ssa Emanuela Teresa Galasso
Psicologa clinica