Oggi vorrei riflettere su un termine che si usa spesso e con facilità, ma che non sempre si concretizza con l’azione reale: “Il lavoro di rete”.
Cos’è una rete? Un incastro perfetto che consiste in un qualsiasi gruppo di individui connessi tra loro da diversi legami sociali.
Quando una donna si rivolge ad un Centro Antiviolenza, non sempre intorno a sé ha una buona “rete sociale primaria”, ovvero persone legate a lei ma non necessariamente di natura affettiva (parenti, amici, vicini di casa).
Spesso, infatti, le donne che hanno subito violenza non sanno con chi parlare della loro esperienza, perché non hanno nessuno e arrivano a noi sole e disperate. A volte incontrano “terapeuti naturali”, come ad esempio preti o operatori di associazioni che pur avendo una capacità innata di ascoltare e di dare consigli, tendono ad agire in modo spontaneo, offrendo liberamente se stessi come risorsa di sel-help, ma non sono in grado di offrire soluzioni a problemi che richiedono specificità e professionalità.
Io vorrei soffermarmi sulla “rete formale” che è quella che dovrebbe sempre funzionare adeguatamente, al fine di dare reale e professionale sostegno alle persone in difficoltà che si rivolgono ai servizi preposti all’accoglienza di bisogni. Le “reti formali” sono quelle costituite dalle istituzioni sociali, formalizzate ufficialmente in base a specifiche norme e mandati. Sono molto strutturate, forniscono servizi, concorrono con la propria specificità al sistema del benessere comune; in questa tipologia rientrano anche le realtà di terzo settore, o settore no profit (associazioni, cooperative sociali, gruppi di volontariato organizzato). Purtroppo il malfunzionamento della rete può portare la vittima ad una seconda vittimizzazione e può allontanare le donne dal desiderio di risolvere il problema.
La “vittimizzazione secondaria”, infatti consiste nel rivivere le condizioni di sofferenza a cui è stata sottoposta la vittima di un reato ed è spesso riconducibile alle procedure delle Istituzioni susseguenti ad una denuncia. Ecco perché spesso rinunciano a denunciare, la paura di non avere risposte e di non sentirsi accolte.
A volte le donne ci riferiscono, che quando provano a cercare aiuto, non sempre trovano le risposte ai loro bisogni o problemi. Su questo vorrei fare un esempio recente di una donna che ci ha contattata riferendoci che prima di chiamare noi aveva contattato un altro Centro Antiviolenza, che ha risposto “Hai un avvocato? Hai sporto denuncia?” Lei ha risposto sì, però si è chiesta perché l’operatrice non mi ha chiesto dove stavo o se mi sentivo in pericolo? E così su internet ha trovato il Centro Antiviolenza Liberaluna.
Questo è un esempio di quanto anche carabinieri e polizia, non conoscano il territorio, non hanno avuto da chi di dovere le informazioni sui Centri esistenti e sui servizi che vengono offerti. Le donne devono poter avere la possibilità di scegliere, conoscendo quali sono i servizi offerti, ma questo non avviene perché c’è una mancanza di informazioni che dovrebbero veicolare all’interno della rete. A volte anche noi, non conosciamo tutti i servizi offerti nella nostra realtà sociale, però ogni volta che si presenta un caso, che necessita anche di altre professionalità o di servizi che non possiamo garantire, proviamo a cercare al fine di poter dare un’assistenza integrata a quello che è il nostro sostegno alla donna, che deve avere sempre risposte chiare.
Purtroppo ogni professionista che opera nel sociale, gli enti pubblici, le forze dell’ordine, ognuno di noi fai il proprio lavoro, ma da soli non è possibile offrire sostegno a 360 gradi. Solo se l’interazione tra questi soggetti funziona, la rete formale può rispondere alle esigenze di chi chiede aiuto.
Possiamo concludere definendo il lavoro di rete come l’insieme di interventi finalizzato a legare fra loro persone, gruppi o istituzioni tramite significative relazioni interpersonali e interfunzionali per migliorare la qualità della vita dei singoli e della comunità.
La responsabile del Centro Antiviolenza Liberaluna Cav Dr.ssa La Selva Maria Grazia