Nella Prima Repubblica sarebbe stato inconcepibile, inimmaginabile e inaccettabile che all’atto della presentazione delle liste per le elezioni politiche, il segretario della DC, del PCI, del PSI o del PRI avesse ostacolato, impedito o eliminato candidati delle proprie minoranze interne. La democrazia regge sul pluralismo di partiti e schieramenti che non si fondano sulla fedeltà al capo bensì sulla lealtà verso il partito. Prendere atto che figure di spessore appartenenti a diverse formazioni politiche si siano ritrovate fuori dalle liste, non per ragioni di merito, statutarie o organizzative, ma per il semplice motivo che non sono allineate sulle posizioni del segretario pro-tempore, lascia esterrefatti. La questione non è circoscrivibile ad un confronto interno ai singoli partiti ma assume un rilievo di carattere generale perché obbliga chi fa politica a rinunciare alle proprie idee, a non alimentare alcun dibattito e a dare sempre ragione a chi comanda, per timore di subire ritorsioni immediate o postume. Una democrazia del capo è un ossimoro, non esiste, è una negazione delle leggi di natura e piega le istituzioni al controllo di maggioranze allineate a prescindere coi voleri dell’uomo forte di turno. Questo mutamento è un passo indietro pericoloso che si contrappone al pronunciamento referendario del 4 dicembre 2016 in difesa della Costituzione e apre varchi a derive peggiori di stampo reazionario. Se passa il principio che è meglio Obbedire, Tacere e Combattere, ci si allontana dalle libertà scolpite nella Carta Costituzionale. In questo clima è maturata la scomunica nei confronti di Antonio Di Pietro, una delle rarissime voci del Molise di caratura internazionale capace di farsi ascoltare ad ogni livello a tutela del proprio territorio e delle proprie idee. In una società dominata dalla comunicazione, il Molise stenta a veicolare le ragioni della comunità regionale su dimensione nazionale e ancor di più a livello globale. Non ha potentati economici, non esprime numeri ritenuti interessanti, non è una regione a statuto speciale e non ha particolarità tali da richiamare l’attenzione al di fuori dei propri confini, tanto è vero che sui social ci si interroga sul Molise che non esiste o si finisce nei film di Checco Zalone quale luogo dell’inverosimile, sconosciuto, anonimo e privo di qualsiasi attrattiva. In un contesto simile o ci si allinea a Roma, a spese del Molise e sulla pelle dei Molisani com’è accaduto con la privatizzazione strisciante della sanità regionale decisa con voto di fiducia dal Parlamento, oppure si annaspa tra peones che non toccano palla. Al di là del suo percorso, delle sue scelte, degli errori compiuti e dei successi riportati, è indubbio che Antonio Di Pietro rappresenta una voce fuori dal coro capace di farsi sentire ad ogni livello. La sua candidatura maturata all’ombra di un’alleanza di ferro col Governo Regionale è svanita perché indigesto al segretario nazionale. Sarebbero stati i molisani a decidere se eleggere o meno Di Pietro in Parlamento, e bene aveva fatto Di Pietro a sostenere con lealtà che in caso di elezione si sarebbe tenute le mani libere rispetto alle scelte da compiere, attenendosi alla Costituzione che sancisce l’assenza del vincolo di mandato. Sta di fatto che le cose sono andate diversamente. I non allineati non vengono proprio candidati e questa è una notizia poco rassicurante per tutti, anche per chi era, è e sarà sempre di sinistra, su altre posizioni rispetto a Di Pietro ma pronto a riconoscerne il valore, le competenze e l’impegno profuso per l’Italia e per il Molise.
Michele Petraroia