Con l’insediamento della XII legislatura del Consiglio Regionale del Molise è d’uopo fare una qualche considerazione sulla rappresentanza femminile nel contesto dell’Assise regionale- afferma in una sua nota Giuditta Lembo Consigliera di parità della Provincia di Campobasso – ed, ad un primo esame, è palese che la rappresentanza femminile è raddoppiata rispetto alla passata legislatura, sei consigliere a fronte delle tre precedenti che rappresentano per appartenenza territoriale tutto il territorio regionale. Sarà più soddisfacente però vedere un giorno un’ Assise paritetica atta a garantire il diritto costituzionale di uguaglianza e parità, come è d’altronde richiamato nell’art. 117, comma 7, della Costituzione in tema di parità di accesso tra donne e uomini alle cariche elettive, che così recita: ”Le leggi regionali rimuovono ogni ostacolo che impedisce la piena parità degli uomini e delle donne nella vita sociale, culturale ed economica e promuovono la parità di accesso tra donne e uomini alle cariche elettive”.
Con questo comma il Legislatore della riforma ha inteso ribadire come, nonostante l’Autonomia di cui godono le Regioni nelle materie di propria competenza o concorrenti, deve essere garantito il rispetto dei principi in esame, la cui formulazione ricalca (anche letteralmente) quella degli articoli 3 e 51 della Costituzione. Garantire la rappresentanza di genere non significa solo garantire pari opportunità per le donne, ma creare il presupposto per una maggiore e migliore partecipazione democratica a vantaggio di tutte e di tutti. Il vero cambiamento si consegue insieme, uomini e donne, per realizzare quel clima culturale favorevole all’idea che il rinnovamento di cui hanno bisogno le Istituzioni passa anzitutto per una più equa rappresentanza dei generi. Purtroppo – prosegue la Lembo- si continua a ricorrere alla giustizia amministrativa per vedere riconosciuto alle donne il diritto ad essere presente negli esecutivi ma occorre spostare decisamente l’asse del dibattito dalle “quota rosa”, intese come forma di garanzia per una minoranza in qualche modo svantaggiata e bisognosa di tutela, alla “democrazia paritaria e duale”, cioè fondata sulla consapevolezza dell’esistenza di due generi come pre-condizione dell’uguaglianza e fondamento di una democrazia compiuta.
Rivendicare la “riserva indiana” per le donne in politica non risponde a pieno al rispetto del principio di una equilibrata presenza di donne e uomini. Parlare ancora di quote rosa nel 2018 dopo che l’Unione Europea si è spinta a parlare del 40% così come la rivoluzionaria sentenza del TAR Lazio del marzo 2013, è riduttivo. Le donne non devono chiedere tutela, ma la condivisione dei diritti, in quanto vogliono contribuire allo sviluppo del proprio paese con la loro competenza e con la loro passione. Solo così si potrà parlare di una democrazia compiuta, dove tutti i cittadini sono davvero rappresentati. Non c’è bisogno- precisa Giuditta Lembo- di dati per acquisire la consapevolezza che per le donne è più difficile essere assunte o fare carriera, che nel mondo del lavoro sono discriminate, guadagnano meno, poche arrivano nelle stanze dei bottoni e se ci sono arrivate hanno dovuto strafare, studiare, specializzarsi, lavorare, soffrire cento, mille volte più di un uomo. Quindi, se l’obiettivo delle quote rosa è di evitare discriminazioni, esse possono essere un mezzo ma non un fine. Una richiesta così sarebbe servita negli anni ’60, ma nel 2018 i tempi sono più che maturi per un riconoscimento dovuto del lavoro femminile, nella pubblica amministrazione, nella politica. Nell’impresa le donne hanno dimostrato quanto valgono, hanno studiato meglio, hanno lavorato di più, hanno retto meglio alla crisi, hanno aspettato di più e molte riescono ad essere al tempo stesso professioniste e madri.
Le donne conoscono il loro valore ed è molto più gratificante e socialmente più utile essere assunte o promosse perché brave nel proprio lavoro e non solo perché donne. Come è mai possibile valutare le qualifiche e decidere di preferire una persona ad un’altra solo in base al sesso? Le donne vogliono lavorare, bene, a fianco degli uomini, avere incarichi di rilievo, rappresentativi, operativi, inventivi, non vogliono più qualcosa di meno, come è stato fino ad ora, ma qualcosa di più soprattutto perché lo meritano. La preparazione, la professionalità, l’intelligenza, la volontà, la determinazione non hanno sesso. Certo è che il problema della scarsa presenza delle donne nel cuore pulsante delle istituzioni democratiche del paese-prosegue la Consigliera – è un problema reale, ed è un problema della democrazia stessa; non solo una questione di «genere», quanto, piuttosto,di civiltà.
È un percorso di garanzie, non di semplici «riserve»; ed è un percorso che investe l’intera società perché la scarsa presenza di donne nelle istituzioni (non solo in quelle «politiche») è, anzitutto, una questione culturale,la dimostrazione dell’arretratezza culturale di un paese. Il tema della democrazia paritaria (uomo-donna), sebbene declinato con forme differenti, è tema europeo, nel senso che coinvolge tutti i sistemi politici dell’Unione Europea. Letteralmente democrazia significa “governo del popolo”; il dibattito fra democrazia formale e democrazia sostanziale, riferito storicamente alle procedure o agli elementi di eguaglianza, è oggi superato dall’idea che regole e contenuti della democrazia devono coesistere e che significati quali diritti di cittadinanza, eguali opportunità, inclusione sociale, diritti di libertà, eguaglianza, differenza e partecipazione debbano qualificare in modo pregnante il concetto “governo del popolo”. Parlare di democrazia paritaria assume quindi il valore di un pensiero politico rinnovato in cui è centrale la condivisione dello spazio pubblico fra i due generi: non può esistere una democrazia partecipativa se non si introduce la prospettiva della cooperazione fra uomini e donne nella costruzione delle Istituzioni della democrazia. La Costituzione italiana del 1948 si pose, chiaramente, da un lato l’obiettivo di garantire una effettiva eguaglianza tra i cittadini, dall’altro di favorire l’affermazione dei cittadini di sesso femminile in contesti tradizionalmente caratterizzati da una forte presenza/influenza maschile. Ne sono prova, quanto meno, gli artt. 3, 37, comma 1, e 51, comma 1,Cost. In particolar modo, l’art. 3 della Costituzione italiana, nel garantire la pari dignità sociale e giuridica di tutti i cittadini, sancisce il divieto di discriminare in relazione al sesso, alla razza, alla lingua, alla religione, alle opinioni politiche e alle condizioni personali e sociali. In relazione alle attività lavorative svolte dalle donne, gli artt. 37, comma 1, e 51, comma 1, stabiliscono, da un lato, l’assoluta parità tra uomo e donna nel mondo del lavoro (pari diritti e, a parità di lavoro, identica retribuzione), e, dall’altro, il diritto ad accedere agli uffici pubblici e alle cariche pubbliche in condizioni di eguaglianza.
Infine bisogna ricordare anche l’importante riforma del 2001 dell’art. 117 della Costituzione che prevede che le leggi regionali rimuovano “ogni ostacolo che impedisce la piena parità degli uomini e delle donne nella vita sociale, culturale ed economica” e promuovano “la parità di accesso tra donne e uomini alle cariche elettive”. Siamo ancora lontani –conclude la Lembo- da quello che potrebbe essere considerato un momento decisivo verso una rappresentanza egualitaria, ma rivendicare la parità serve se non altro a marcare una traiettoria di marcia irrinunciabile per un paese che vuole dotarsi di Istituzioni più rappresentative, allineate alle principali democrazie europee, e segnare nei fatti la propria propensione all’innovazione, al cambiamento e alla reale capacità di inclusione, perché come annunciato dalla Piattaforma di azione della Conferenza mondiale sulle donne, Pechino 1995: ”L’acquisizione di potere da parte delle donne e la parità tra i cittadini e le cittadine sono condizioni necessarie per raggiungere la sicurezza politica, sociale, economica, culturale ed ambientale di tutti i popoli”.