A parte Carlo Calenda, chi vuole più fare il sindaco in Italia? In una grande città, poi. È un po’ come gli ortopedici: negli ospedali non rispondono ai bandi di concorso, perché lo stipendio se ne andrebbe per metà in spese di assicurazioni, visto che sono la categoria medica più denunciata d’Italia.
Un tempo fare il sindaco di Roma, Milano, o Napoli era almeno parte di un cursus honorum. Se andava bene, ti si schiudeva una carriera politica nazionale, vedi Rutelli, Veltroni, Orlando, Bianco. Oggi manco quella. Non c’è più il «cursus» perché non ci sono più i partiti o le coalizioni che lo garantivano: se dicevi di sì a Berlusconi o a D’Alema e accettavi una candidatura, poi potevi star certo che saresti stato ripagato.
Oggi i leader vanno e vengono: è diventato un lavoro stagionale. E non ci sono più gli «honorum» perché la carriera di sindaco è diventata un calvario, non è nastri e inaugurazioni e soldi da spendere, come nella Seconda repubblica. Nella Terza solo processi per abuso d’atti di ufficio e debiti.
Assistiamo così a veri e propri paradossi. Zingaretti, per esempio, potrebbe essere costretto a fare la carriera al contrario, da segretario nazionale di un partito a sindaco di Roma, dopo aver fatto il presidente della Provincia di Roma e il presidente della Regione Lazio: si vede che il centrosinistra nella Capitale non produce nient’altro di candidabile da vent’anni, nonostante l’instancabile genius loci Bettini.
Oppure assistiamo alla disperazione del centrodestra, che deve pregare i vecchi leoni del passato di rimettersi in pista nonostante gli anni, e si becca un no da Bertolaso e un no da Albertini, e meno male che la Moratti ha detto sì per la Regione, sennò le vaccinazioni erano ancora ferme a quel dì.
Restano gli amatori del ruolo, come Bassolino, che si candida per la quarta volta in trent’anni. E restano gli eroi, i tanti sindaci dei piccoli comuni che lo fanno per la loro comunità, e ne pagano le spese.
Pompilio Sciulli – Anci Molise