Occorreva il Coronavirus per incentivare il Lavoro agile in Italia?

Purtroppo, come sempre in Italia, deve accadere qualcosa sulla “pelle” dei cittadini per rendere attuativa e stringente l’applicazione di un dettato normativo e mi riferisco alla Legge 124/2015 che obbliga le amministrazioni pubbliche ad adottare un nuovo modello culturale di organizzazione del lavoro più funzionale, flessibile e orientato al risultato ossia il cd. “Lavoro agile”, riconfermato dalla Direttiva n.3 del 2017. Inizia così la nota della Consigliera di Parità delle Province di Campobasso e Isernia Giuditta Lembo.

Infatti in seguito all’epidemia determinata dal Coronavirus il lavoro agile o “smart working” – prosegue la Lembo – si è rivelato una soluzione ottimale per evitare la paralisi di tutte le attività lavorative nelle zone a rischio, e fare in modo che laddove le scuole sono chiuse i genitori possono ricorrere a questa forma alternativa di lavoro senza subire penalizzazioni di alcun genere causate dall’assenza dal lavoro.

Le regioni del nord, soprattutto quelle colpite dal contagio, avendo già fatto partire negli anni passati modelli sperimentali di lavoro agile, stanno riuscendo a porre in essere o a potenziare lo “smart working” arginando la paralisi degli uffici e di alcune attività aziendali, avrei qualche dubbio nel caso in cui le regioni del sud dovessero ricorrere al lavoro agile per qualche motivo emergenziale, dato che sono davvero pochissime le P.A. e le aziende del sud che hanno provveduto a dare attuazione alla Legge n. 124 del 2015 nonché alla successiva Direttiva n.3 del 2017 che obbliga le PA, laddove i lavoratori o le lavoratrici ne facessero richiesta, ad avere entro tre anni dall’entrata in vigore almeno il 10 % dei
lavoratori e delle lavoratori in regime di lavoro agile.

Tale resistenza, da parte dei datori del lavoro, soprattutto del Sud, risulta motivata dal ritardo legato alla digitalizzazione delle Istituzioni pubbliche, in realtà vi è un altro motivo velato, ossia l’ancora errata convinzione di legare la produttività del / della lavoratore / lavoratrice alla quantità di ore di presenza in ufficio, mentre il lavoro agile la lega al raggiungimento degli obiettivi, ciò sicuramente è in grado di influire non solo positivamente sulla produttività ma anche sul livello di benessere organizzativo dei dipendenti, con un generale miglioramento della qualità della vita, anche in termini di conciliazione vita/lavoro.

Si tratta di una nuova modalità di esecuzione della prestazione lavorativa che consente di lavorare in modo flessibile nel rispetto degli obiettivi prefissati. Inoltre non meno importanti sono le ricadute positive anche per la società in generale, non solo per lavoratori, lavoratrici e datori di lavoro: si stima che un’ampia applicazione dello “smart working” possa ridurre il traffico, l’inquinamento ma anche favorire una maggiore inclusione sociale. E’acclarato – continua Giuditta Lembo – che esiste una propensione maggiore delle donne allo “smart working” che ha un riverbero negativo per le lavoratrici stesse. Secondo le ricerche di Heejung Chung, dell’Università del Kent, su «lavoro autonomo, flessibilità e bilanciamento lavoro-vita personale», la flessibilità aumenta le possibilità di accrescere il proprio reddito in nome della maggiore produttività garantita.

Ma di questo approfittano più gli uomini che le donne. Il motivo risiede nelle diverse motivazioni per cui lavoratrici e lavoratori usano il lavoro agile. Le prime lo fanno soprattutto per venire incontro a esigenze della famiglia, tanto che non pretendono compensi aggiuntivi per i migliori risultati garantiti (soprattutto le donne con figli arrivano a rinunciare al compenso del lavoro straordinario pur di avere un po’ di flessibilità in più). Da qui anche la penalizzazione rispetto alla presenza femminile nei ruoli apicali soprattutto al Sud. Gli uomini, invece, utilizzano il lavoro flessibile nell’ambito di una strategia personale di avanzamento di carriera. Nonostante i benefici del lavoro agile, in Italia siamo ben lontani dalla media Ue del 17%, sebbene i lavoratori e le lavoratrici italiani coinvolti potrebbero arrivare al 70% secondo i dati dell’Osservatorio del Politecnico di
Milano, con un aumento di produttività del 15%, che a livello di sistema Paese significano 13,7 miliardi di euro di benefici complessivi.

In Italia – precisa la Consigliera di Parità – nonostante il proliferare negli anni di numerosissime misure rivolte a garantire i diritti soprattutto delle lavoratrici, essendo i soggetti, ancora oggi, più penalizzati nel mondo del lavoro, spesso queste norme non hanno trovato applicazione e vengono ripetutamente violate nonostante prevedano in
alcuni casi sanzioni importanti come ad esempio i cd. “Piani triennali di azioni positive” volti a garantire nelle P.A. le pari opportunità nel lavoro, e che prevedono il blocco delle assunzioni nel caso la P.A. non li approvi. Occorre – conclude Giuditta Lembo – per questo promuovere interventi atti a monitorare l’applicazione di queste norme imperative e cogenti affinchè davvero abbiano quell’efficacia necessaria per raggiungere gli obiettivi previsti al loro interno.

Auspico, quindi, che per quanto riguarda soprattutto il lavoro agile, presto diventi una buona prassi come ho affermato in alcuni seminari informativi organizzati, già qualche anno fa, presso la Regione Molise e la Provincia di Campobasso, alfine di sensibilizzare soprattutto le Istituzioni nonché i soggetti interessati. Non posso in questa nota – chiude la Consigliera Lembo – esprimere la mia vicinanza alle Regioni che stanno affrontando questa emergenza e augurare al nostro Paese di poter quanto prima ritornare alla normalità.

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