I datori di lavoro non possono riprendere arbitrariamente i dipendenti all’opera. Altrimenti rischiano una condanna penale. Ciò vale anche quando la realizzazione dei video è giustificata da esigenze di sicurezza e tutela del patrimonio aziendale e pure se i lavoratori sono d’accordo e hanno fornito il loro assenso scritto: gli apparecchi che potenzialmente possono controllare a distanza i dipendenti, in tal senso, possono essere autorizzati solo a seguito di accordo con le rappresentanze sindacali o in mancanza di questo, dalla Direzione Territoriale del Lavoro, mentre il consenso degli interessati non costituisce un’esimente per l’imprenditore perché i lavoratori sono «soggetti deboli» del rapporto subordinato ed in quanto tali influenzabili già in sede di assunzione. Tutto questo era già stato previsto dagli articoli 4 e 38 dello Statuto dei Lavoratori (L. n. 300 del 1970) in materia di tutela penale del divieto di operare controlli a distanza con impianti, strumenti e apparecchiature non preventivamente autorizzate, ma è stato confermato anche dall’art. 23, c 2 D. lgs n. 151 del 2015, che ha modificato l’art. 171 D. lgs n. 196 del 2003 e quindi vale anche dopo l’entrata in vigore del Jobs Act. A ribadire quelli che sono sacrosanti principi dei diritti dei lavoratori non scalfiti dalla recente riforma, è la sentenza della terza sezione penale della Cassazione 38882/18, pubblicata il 24 agosto, che per Giovanni D’Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti”, è un’importante decisione che fa il punto in materia e fornisce preziose indicazioni ai fini della tutela del rapporto datore/dipendenti in materia di videosorveglianza e riprese nei luoghi di lavoro. Nel provvedimento in commento è stata confermata l’ammenda emessa dal Tribunale di Chieti nei confronti del titolare di un bar per il reato di cui agli articoli 4 e 38 D. Lgs. 300 del 1970 perché quale esercente attività di bar-gelateria, installava quattro telecamere, disponendole in vari punti dello stabilimento, connesse ad uno schermo LCD e a un apparato informatico, in modo da avere il controllo visivo di tutti i luoghi di lavoro dove i dipendenti svolgevano le mansioni loro attribuite ed averne il controllo a distanza.
A nulla è valso rilevare che il sistema di videocamere risultasse installato per l’incolumità delle persone e la tutela del patrimonio aziendale ed in particolare a seguito di due episodi uno consistente in un’aggressione ad una dipendente da parte di ragazzi ubriachi, e quindi l’istallazione risponderebbe ad esigenze di sicurezza sul lavoro, e l’altro riguardante furti subiti dal locale e dunque la videosorveglianza avrebbe la finalità di tutelare il patrimonio aziendale. Non vi è dubbio che l’impianto anche solo potenzialmente controlla a distanza i dipendenti: ed il reato è integrato anche quando le telecamere restano spente. Per autorizzarle la legge ha scelto una procedura codeterminativa, vale a dire l’accordo coi sindacati, che è collettivo, o l’autorizzazione dell’organo pubblico. Rileva, a tal proposito, il supremo collegio con condivisibile e significativa motivazione che: «Questa procedura, dettagliatamente prevista dal legislatore – frutto della scelta specifica di affidare l’assetto della regolamentazione di tali interessi alle rappresentanze sindacali o, in ultima analisi, ad un organo pubblico, con esclusione della possibilità che i lavoratori, uti singuli, possano autonomamente provvedere al riguardo – trova la sua ratio nella considerazione dei lavoratori come soggetti deboli del rapporto di lavoro subordinato. La diseguaglianza di fatto, e quindi l’indiscutibile e maggiore forza economico-sociale dell’imprenditore, rispetto a quella del lavoratore, rappresenta la ragione per la quale la procedura codeterminativa sia da ritenersi inderogabile (a differenza di quanto ritenuto invece dalla Sez. 3, n. 22611 del 17/04/2012, Banti, Rv. 253060, citata nel ricorso), potendo essere sostituita dall’autorizzazione della direzione territoriale del lavoro solo nel solo di mancato accordo tra datore di lavoro e rappresentanze sindacali, non già dal consenso dei singoli lavoratori, poiché, a conferma della sproporzione esistente tra le rispettive posizioni, basterebbe al datore di lavoro fare firmare a costoro, all’atto dell’assunzione, una dichiarazione con cui accettano l’introduzione di qualsiasi tecnologia di controllo per ottenere un consenso viziato, perché ritenuto dal lavoratore stesso, a torto o a ragione, in qualche modo condizionante l’assunzione».
Giovanni D’Agata