Il premier davanti al dilemma: guidare la fase di transizione ma bruciarsi l’immagine. E per ora rifiuta il pressing
GOFFREDO DE MARCHIS www.repubblica.it
Rinviare Renzi alle Camere per verificare se ha ancora la fiducia e dunque una maggioranza. Con un impegno solenne. Il nuovo giro di giostra ha una scadenza molto ravvicinata: la sentenza della Corte costituzionale sull’Italicum, il 24 gennaio. E se il pronunciamento dei giudici riscrive una legge elettorale immediatamente utilizzabile, si scivola velocemente verso le elezioni anticipate. Anche ad aprile.
Al Quirinale, sebbene le consultazioni non siano mancora entrate nel vivo, si ragiona su questa ipotesi. Che contiene una notizia buona e una cattiva per Matteo Renzi. La buona è che il suo ritorno a Palazzo Chigi si reggerebbe su un “patto istituzionale” per andare molto presto alle urne. Anche nel caso si dovesse mettere mano alla legge elettorale con un ritocco o con un’armonizzazione delle regole di voto per Montecitorio e Palazzo Madama. Sarebbe comunque l’ex premier a gestire la partita. La cattiva è che un ritorno immediato sulla poltrona di presidente del Consiglio gli farebbe pagare un carissimo prezzo di immagine rispetto agli elettori, lo esporrebbe alla caricatura del Rieccolo, il soprannome affibiato all’eterno Amintore Fanfani. Per questo, Renzi continua ad avere mille dubbi. Anzi, il suo rimane un “no”, riferito ai fedelissimi in queste ore: “Non accetto il bis o una nuova fiducia. Non faccio il capro espiatorio”. Come dire: se torno indietro mi sparebbero tutti contro, sarei solo un bersaglio.
Ma il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, nei colloqui con Piero Grasso, Laura Boldrini e Giorgio Napolitano, parlando di tempistica, ha lasciato capire che la strada maestra è quella di un rinvio alle Camere. Lunedì, finite le consultazioni, il capo dello Stato decide e vuole che al Consiglio europeo di giovedì si sieda un governo italiano in carica. Non solo: “Un governo che abbia avuto la fiducia di almeno una Camera “. Da lunedì a giovedì corrono solo due giorni. Un tempo incompatibile con un reincarico a Renzi, il bis, che significa la formazione di un nuovo esecutivo, o la scelta di un nome diverso. Compatibile invece con un voto di fiducia al governo dimissionario. Del resto, la maggioranza è solida anche al Senato, dove ha preso 173 voti appena l’altro ieri.
Al Quirinale devono ancora parlare Lega, 5 Stelle, Forza Italia e il Pd. Lo faranno tra oggi e domani. È sempre possibile che questo disegno subisca delle variazioni, che qualche risposta positiva su una legge elettorale da farsi ex novo possa arrivare. A quel punto il Partito democratico ha i nomi per uscire dalla crisi. Il preferito di Renzi è il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni. Seguito da Pier Carlo Padoan. Molto dietro Graziano Delrio che secondo i renziani farebbe ombra al leader dem. Tagliato fuori invece Dario Franceschini. Il ministro della Cultura è molto irritato per le voci su un suo presunto accordo con Forza Italia per arrivare a Palazzo Chigi. Ha diffuso una nota, fatto molto lontano dal suo stile. Per raccontare che, con ironia, ha risposto ieri ai messaggi spiegando di “non poter parlare perché sono ad Arcore a chiudere il patto con Berlusconi…” . Ma è furibondo. Tra i due è rottura totale. “Matteo è il segretario – spiega Franceschini – e il partito deve seguire la sua linea”.
Franceschini dunque non è più in corsa, anche a detta del Colle. Dove si ripete sempre che il pallino resta nelle mani di Renzi, che è lui a dover decidere lo sbocco della crisi. Spendendosi in prima persona con le “garanzie” di un percorso verso il voto anticipato da dettare nei tempi e nei modi. E con qualche apertura da parte degli altri partiti che non lo renda un punching ball. O indicando un altro dirigente dem.
Le parole di Luigi Di Maio, in questo senso, sono un avvertimento chiarissimo. I 5 Stelle vogliono Renzi a Palazzo Chigi ed elezioni subito. Questa è la loro strategia per preparare una seconda vittoria, dopo quella al referendum di domenica scorsa. “La soluzione della crisi è semplice: il premier dimissionario resta in carica per il disbrigo degli affari correnti – dice il vicepresidente della Camera -. Fino alla sentenza della Consulta. Poi si va subito al voto”.