di Pietro Colagiovanni
Sono una persona idiosincratica, alcune cose mi stanno subito sulle scatole (per non dire peggio) a pelle, immediatamente. Lo stesso vale, in modo irriflesso, per le persone ma, con gli anni una sorta di empatia universale, una specie di afflato sul comune destino dell’umanità, ha smussato questa mia innata caratteristica verso il prossimo. Resta invece, solida, l’avversione totale verso eventi, fatti, cose o, come nel caso di oggi, parole. Una che proprio non sopporto e che purtroppo ha avuto ed ha un successo clamoroso in Italia è il termine RESILIENZA. Un successo tale, sostenuto da migliaia di “fighifintocoltichenesannodipiù” da diventare una delle parole del PNRR. Il Piano nazionale di ripresa e resilienza ossia i soldi pubblici che lo Stato italiano riceve da Bruxelles per ricostruire un paese distrutto da una gestione insensata della pandemia. Apprezzo il governatore della Campania De Luca come un cabarettista di alto livello, forse meno come uomo politico e amministratore (anche se è meglio di tanti altri). E ho concordato pienamente con lui quando ha detto che chi ha inserito la parola resilienza nel Pnrr andava tradotto immediatamente in carcere. Perché diamine mai un piano per la ripresa dovrebbe essere anche un piano nazionale per la resilienza? Probabilmente perché nessuno sa bene cosa sia la resilienza ma fa figo parlarne, citarla, riempirsene la bocca, declamarla in qualsiasi occasione. Com’è resiliente questo gelato! Sapessi che lavoro resiliente sto facendo.. E’ davvero difficile avere una famiglia e dei figli resilienti, è molto impegnativo. L’Italia è un paese di conformisti e come votarono in massa per il plebiscito in favore di Mussolini così cercano in ogni modo di essere sul carro del vincitore, con chi ha il potere, con chi è giusto, fa tendenza, definisce il trend, ti fa sentire di successo, al posto giusto nel momento giusto. E dire resilienza, con un minimo sforzo ha proprio questo brillante effetto. Ma cos’è la resilienza davvero? E’ una proprietà chimico fisica di alcuni materiali, la capacità di assorbire un urto senza rompersi. Mi piego ma non mi spezzo, per intenderci. Una cosa piuttosto banale, un concetto neanche tanto potente, evocativo, suggestivo. Sicuramente un concetto utile ma nulla di più. Su questa base fisica sono poi intervenuti gli psicologi che nella loro faticosa ed anche meritoria ricerca di termini utili per descrivere l’ineffabile psiche umana hanno trovato nel termine resilienza un buon alleato. La resilienza diventa quindi la capacità di una persona di superare un trauma, un evento drammatico quello che prima si chiamava “elaborare un lutto”. Una persona resiliente, per gli psicologi, è una persona che ha preso una batosta ma è stata comunque in grado di mantenere un proprio equilibrio, una propria stabilità forse anche arricchendosi. E questo ci può stare, può essere utile e proficuo. Poi però sono arrivati gli intellettuali sui divani in finta pelle umana, i pensosi pensatori, spesso raccomandati o figli di, i maitre a penser, i pontificatori dei salotti televisivi o delle colonne di giornali conformisti (praticamente tutti in Italia). Che hanno trasformato la resilienza in un vero e proprio mantra, una parola dalle proprietà magiche nella società o nella politica o nel governo. E infine, last but non least, sono arrivati i politici gente che in generale non sa nulla di niente e di nessuno ma ha un grande intuito. Il politico ha capito che con la resilienza poteva riempirsi la bocca di aria fritta ed avere grandi effetti sul popolo . Ed ecco perché si è arrivati al demenziale uso del termine nel Pnrr. E se continua così il nuovo test di ingresso nella Pubblica amministrazione sarà la misurazione del tasso di resilienza del candidato. La mia natura di eremita si rafforza e mi spinge ogni giorno di più ad abbandonare questa schifezza sociale in cui sono immerso. Ma alla fine sono resistente, e non resiliente, e quindi resisto alla demenzialità diffusa e incolta di cui l’uso del termine resiliente è piena testimonianza.