Era tutto previsto, è tutto prevedibile. Il sistema sta cambiando e, inevitabilmente, gli scossoni si fanno sempre più allarmanti. E quindi si aprono fasi strane, nella politica e nella società. Anche in ambienti piccoli, provinciali, tribali come il Molise. Una società ancora affannata in rapporti di affiliazione per aggredire la spesa pubblica e spartirsela. Una prassi consolidata, la cifra dell’autonomia molisana. Un gruppo di predoni, per decenni, mascherati da classe dirigente ha saccheggiato le notevoli risorse pubbliche disponibili. Lo ha fatto distribuendo per sé e per le proprie congregazioni, i propri soldati semplici, cui andava il soldo, nella forma di pensioni di invalidità senza invalidi, di posti pubblici al servizio di nessuno, di lavori pubblici nella forma ma privati nella sostanza. Questo mondo è finito ma chi ancora comanda nel Molise non lo sa. E quindo prosegue, come se nulla fosse. Succede però che i soldi pubblici sono sempre meno copiosi, il fiume si inaridisce. E quindi non tutti i predoni possono più abbeverarsi alle sue fonti. Non c’è più posto per tutti. Inevitabilmente, qualcuno, quello che si pensa sia il meno forte, viene scacciato dalla riva del fiume sempre più secco e più scarso. Ma questo predone caduto in disgrazia non ci sta. E inizia un nuova stagione, in cui i predoni cominciano a farsi la guerra tra loro. Inizia una stagione di cannibalismo, di cani che mordono cani. La lotta, essendo il Molise inserito in una democrazia, non avviene usando la violenza fisica, almeno non ancora. Troppo pericoloso, troppo rischioso. Avviene invece con un altro strumento, il ricatto.
I predoni hanno condiviso per anni lo stesso tetto, lo stesso accampamento. Si sono scambiati reciproci favori, hanno visto come si attingeva alle casse pubbliche per ingrassare loro, le loro famiglie, i loro accoliti. In poche parole sanno. E cominciano a far pesare le loro conoscenze. Cominciano a circolare storie alquanto raccapriccianti su come si rubava dalle casse pubbliche, storie che riguardano politici o membri del ceto amministrativo di primissimo piano. Queste storie, ve lo dice chi fa informazione da oltre trent’anni ci sono sempre state, è vero. Ma era un si dice, erano storie di secondo e terza mano, ingrandite e ingigantite dalla narrazione imprecisa e momentanea. Ora non è più così. Le storie sono precise, circoscritte nel tempo e nello spazio. Sono gli stessi protagonisti a parlare, a vuotare il sacco, per vendetta o per rivalsa. Ti parlano di computer zeppi di conti privati in uffici pubblici, ma ti dicono anche la marca, il modello e dove fisicamente si trovano. Ti raccontano di viaggi in stati esteri fatto da delegazioni pubbliche, il cui scopo reale era favorire invece un’iniziativa economica personale e privata di uno dei capi di questa delegazione. Ma ti dicono le date, gli alberghi, i modi in cui persone di queste società private sono state camuffate e rendicontate a spese dell’ente pubblico locale coinvolto. Ti dicono con precisione di debiti con lo Stato creditore fatti svanire grazie a complicità e appoggi locali. Ma ti dicono le cifre, il numero di ruolo, chi ha insabbiato e come, con tanto di nome e cognome. Sono storie vere, circostanziate, precise. Ma al momento vengono usate solo come potenziale arma di ricatto.
E questo non va bene, non va affatto bene. E’ invece dovere di chi sa, in uno scatto di orgoglio e dignità, varcare con decisione il portone di un locale Tribunale e chiedere un appuntamento ad un Procuratore della Repubblica. Forse riuscirebbe, sia pur tardivamente, a riscattarsi agli occhi di una popolazione devastata e immiserita da decenni di ruberie.
Pietro Colagiovanni