La condizione economica complessiva, nonostante le continue rassicurazioni che provengono dall’apparato al governo, in Italia come nel resto dei paesi cosiddetti occidentalizzati, non è positiva. Le crepe che ogni giorno si aprono non possono essere più semplicemente fatte passare come piccoli problemi di manutenzione ordinaria. I continui crolli borsistici, provenienti dalla Cina ma estesi a tutto il mondo, non sono solo frutto di speculazione ma qualcosa di più. Il mondo, come da noi detto da anni, si avvia verso un nuovo modello produttivo e sociale. Un modello più efficiente e meritocratico ma anche fonte di profonde tensioni sociali e di rinnovate emergenze nella redistribuzione delle ricchezze. Nulla può fermare questo cambiamento ma tanto invece lo può rallentare o provare ad ostacolarlo. E, secondo una semplice legge della fisica, se aumenti la pressione su una forza che sta per esplodere l’esplosione sarà semplicemente più porte e deflagrante. Queste semplici constatazioni, ai limiti dell’ovvio sono però fortemente ostacolate e dissimulate dall’elite al potere, in Italia come nel resto del mondo. Restando alla nostra nazione un governo di propaganda sta provando in ogni modo a dissimulare i cambiamenti in atto. O, nella più classica e paradossale operazione di propaganda, a sostenere di essere lui, Renzo Renzi e il suo scadente mischione a, il cambiamento. No, il cambiamento è un’altra cosa e non c’è prima pagina di Repubblica, apertura di qualsiasi telegiornale nazionale a poterlo ostacolare. Il punto però è che in attesa dell’ineluttabile la gente soffre. E soffre immotivamente, solo per consentire ad una razza predona di continuare il saccheggio della cassa comune. A fronte di un peso fiscale enorme, di fronte ad un sistema di raccolta delle imposte vessatorio e predatorio (Equitalia un nome su tutti) i servizi offerti ai cittadini diventano ogni giorno di più scadenti e insufficienti. E questo perché la grande massa delle risorse raccolte dai governi, locali come nazionali, va in prededuzione assegnata ai governanti, intendendosi per governanti i politici, ma anche i membri degli organi di controllo, quelli dei mezzi di comunicazione asserviti, i dirigenti pubblici, gli imprenditori che vivono solo di soldi pubblici (prenditori per la verità) e tutti coloro che attingendo alla casse pubbliche possono ottenere un tenore di vita ed un patrimonio altrimenti del tutto ingiustificato. E così resta poco per la sanità vera, per la giustizia efficiente, per le strade e la arterie di comunicazioni, anche digitali. Resta poco o nulla per la scuola, che nel mondo futuro sarà l’unica possibilità di avere benessere e di poter essere competitivi. E poi, grazie alla singolarità del Renzi nazionale quel poco che resta viene disperso in mance e regali elettorali, come i 500 euro agli insegnanti o gli 80 euro a chi fa 18 anni. Se a questo si aggiunge la biblica migrazione di popoli che l’Occidente ha voluto e creato (basta ricordare le guerre in Iraq e l’eliminazione di Gheddafi senza alcuna progettualità politica alternativa) la gente è destinata ogni giorno di più a vivere male. Intanto la macchina da guerra dell’elita al potere continua il suo feroce assalto alle casse pubbliche. Anzi.
Come sempre succede nei periodi di basso impero, prima del cambiamento, i vizi e le degenerazioni si esacerbano, aumentano di intensità. E quindi in nome di una spending review si tagliano gli ospedali e i pronto soccorsi ma si danno consulenze a consiglieri di amministrazione, amici degli amici, sodali e parenti. I dirigenti pubblici ingrassano le loro tasche con faraonici premi di produttività, premi di cosa non si sa. I controllori si girano da un’altra parte ma intanto intascano stipendi favolosi, degni di un nababbo. Ogni giorno che questo scempio continua la condizione della popolazione peggiora, il dolore aumenta, la gente muore di più (vedi le statistiche Istat del 2015) e chi anche non viene spazzato dalla malattia vive una vita di stenti e di ansia. Prima ce li leviamo dalla palle, allora, prima torneremo a respirare e vivere. Prima che sia troppo tardi.
Pietro Colagiovanni