Il referendum promosso dalla Cgil promette in caso di vittoria di ripristinare l’articolo 18, quindi la reintegra sul posto di lavoro, per tutti.
Fui invitato alla Leopolda, a discutere di Jobs Act e non nascondo che ero contrario allora come lo sono anche oggi, il prossimo 7 marzo saranno dieci anni, da quando fu emanato il Jobs Act che divise in due i lavoratori italiani, quelli assunti prima, con le tutele dell’articolo 18 e quelli assunti dopo, senza quelle tutele, privati della reintegra in caso di licenziamento illegittimo, ma solamente indennizzati, l’allora governo Renzi, nel 2015, la considerava una battaglia di civiltà.
Secondo Renzi, allora presidente del consiglio e segretario del PD ,abolire quella norma, avrebbe portato le aziende italiane a superare lo storico nanismo, incoraggiato dall’assenza di articolo 18 per le imprese sotto i 15 dipendenti e, avrebbe a suo dire, spinto le assunzioni stabili, visto che veniva messo un prezzo fisso sul licenziamento, nessun dipendente sarebbe stato davvero a vita, mandarlo via al massimo poteva costare 24 mensilità poi diventate 36 con il decreto Dignità dei Cinque Stelle ,pura illusione ,non è andata così.
Da giorni sono assalito nei social dalla campagna pro referendum avviata dalla CGIL per l’abolizione del Jobs Act, la sfida è di quelle che fanno tremare i polsi, da tanti punti di vista, il quorum, deve votare il 50% più uno degli aventi diritto e poi però deve vincere il sì.
Sarà di sicuro facile convincere i già convinti, a partire dagli assunti o stabilizzati dopo il 7 marzo 2015, Nei calcoli della CGIL ci sono 3 milioni e 500 mila, a questi vanno aggiunti 3 milioni e 700 mila dipendenti di imprese sotto i 15 dipendenti: non avranno mai l’articolo 18, ma se passa il secondo quesito salterà il tetto massimo delle 6 mensilità di indennizzo, deciderà il giudice caso per caso, poi ci sono 2 milioni e 300 mila precari: i loro contratti a tempo determinato avranno sempre una causale se passa il terzo quesito, ovvero una ragione per l’assunzione temporanea, anche per le durate inferiori ai 12 mesi.
Il quesito che impatta sugli appalti e punta ad estendere la responsabilità in caso di infortunio anche al committente e non solo all’appaltante.
Ogni anno in Italia ci sono mille morti sul lavoro e 500 mila infortuni. Il quinto e ultimo quesito conta infine di ridurre da dieci a cinque gli anni di residenza legale richiesti per poter fare domanda di cittadinanza italiana. Una partita decisiva per 2 milioni e 500 mila cittadini di origine straniera nati e cresciuti qui, che in Italia studiano e lavorano, in teoria le platee interessate al voto ci sono e sono cospicue.
Una forte componente Pd che allora votò a favore sostiene che oltre l’articolo 18 c’è di più. Il sussidio di disoccupazione, la Naspi, esteso quasi a tutti i dipendenti. L’abolizione dei cocopro, i contratti a progetto. Il contrasto alle fine partite Iva e alle dimissioni in bianco, eppure viene ricordato solo per quello: la cancellazione dell’articolo 18.
Negli anni successivi al varo del Jobs Act, molte aziende italiane hanno offerto ai neo assunti l’articolo 18 come benefit.
A dimostrazione di come non fosse davvero un limite, la precarietà, dopo il 2015, ha vissuto stagioni di forti impennate tra voucher e contrattini. Fino a quando, nel post pandemia, qualcosa cambia. Le imprese non offrono più l’articolo 18 come benefit, ma contratti a tempo indeterminato per sopperire alla difficoltà di trovare personale, tra inverno demografico e giovani che scappano all’estero.
Davvero l’articolo 18 può fare la differenza per queste generazioni?
La Corte Costituzionale, nel comunicato del 7 febbraio in cui spiega perché ha deciso di ammettere i cinque referendum, dice una cosa importante a proposito del primo quesito.
Se passasse, verrebbe ripristinato l’articolo 18, non quello del 1970, dello Statuto dei lavoratori, ma quello già limitato della legge Fornero del 2012, in particolare, sottolineano i giudici costituzionali, in alcuni casi, ci sarebbe «un arretramento di tutela», ne cita due: licenziamento illegittimo «intimato al lavoratore assente per malattia e infortunio oppure intimato per disabilità fisica o psichica».
Per questi due casi, l’articolo 18 prevede la reintegra e una sanzione risarcitoria attenuata, limitata cioè a 12 mesi. Mentre la stessa Corte, nella sentenza 22 del 2024, nel caso di lavoratore in Jobs Act aveva disposto la sanzione massima, cioè il reintegro al pari di tutti i casi di licenziamento nullo».
Sentenza intervenuta, come tante altre in questi anni, per correggere le incostituzionalità del Jobs Act, anche nei due casi citati di malattia e disabilità. Il punto è proprio questo: non bastavano queste sentenze, c’era bisogno del referendum?
Se passasse il referendum, si andrebbe proprio nella direzione auspicata dalla Consulta, quella delle omogeneità delle tutele. Anche nei licenziamenti collettivi, lasciati scoperti dalle sentenze della Corte. Faccio un esempio: su 50 dipendenti licenziati in modo illegittimo, oggi solo i 25 assunti prima del 7 marzo 2015 verrebbero reintegrati, gli altri 25 assunti dopo solo indennizzati, una discriminazione da sanare. È vero che l’indennizzo massimo scenderebbe da 36 a 24 mesi. Ma sarebbe ripristinata per tutti la possibilità, in caso di licenziamento illegittimo, di tornare al lavoro». Non poco, basterà?
Se anche fosse che il referendum raggiunga il quorum e vinca il quesito per abolire il Jobs Act si rischia che la toppa sia peggiore dello strappo.
Alfredo Magnifico