L’Italia è l’unico Paese dell’area Ocse che dal 1990 al 2020, il salario è diminuito (-2,9%), mentre in Germania è cresciuto del 33,7% e in Francia del 31,1%.
Hanno influito diversi fattori: la competizione con i paesi esportatori di prodotti a basso valore aggiunto, il ricorso alla manodopera a basso costo e bassa qualificazione che ha schiacciato verso il basso i salari e il livello di produttività nel nostro sistema produttivo.
La produttività del lavoro ha registrato una dinamica più lenta degli altri paesi europei, che è stata, negli ultimi anni, superiore a quella dei salari, rivelando un mancato aggancio dei salari alla performance del lavoro.
In pratica i salari sono “in gabbia” intrappolati tra scarsa produttività e esigenze di riduzione dei costi da parte delle imprese.
La riduzione del cuneo fiscale farebbe crescere il salario netto senza aumentare il costo del lavoro per le imprese, è necessaria una energica politica industriale finalizzata a rimuovere le cause della stagnazione della produttività e a stimolare la dinamica salariale, con beneficio per la crescita della domanda aggregata e del livello di attività economica.
La causa della bassa produttività deriva dalla carenza di competenze e dalla sottoutilizzazione delle competenze disponibili, infatti, il nostro tessuto produttivo non valorizza adeguatamente le competenze dei lavoratori istruiti: l’Italia è l’unico Paese del G7 in cui la maggior parte dei laureati è impiegata in attività di routine, risolvere il problema di questo potrebbe produrre una crescita della produttività del 10%.
Dall’introduzione di tecnologie innovative deriverebbero possibili aumenti di produttività, imprenditori più giovani, più istruiti e di genere femminile sono più sensibili all’evoluzione della frontiera tecnologica.
i dati del World Inequality Database (Wid) mostrano come nel periodo 1990-2021, in Italia, la quota di reddito totale detenuta dal 50% più povero della popolazione è in costante calo: si è passati dal 18,9% del 1990 al 16,6% del 2021, causa scarsa produttività e salari bassi che nell’ultimo trentennio hanno accentuato le disuguaglianze; al contrario, la quota del reddito detenuta dal top 1% è aumentata di circa il 60%.
Introdurre un salario minimo costituirebbe, forse, per i contrari, un elemento di rigidità ma potrebbe essere la base da cui partire per costruire un sistema di diritti e condizioni lavorative decenti, da coesistere con misure e intese che incrementino produttività e liberino risorse per un aumento delle retribuzioni.
Per attaccare l’inflazione a doppia cifra e il potere d’acquisto, sempre più eroso, necessita la revisione degli accordi- ormai un lontano ricordo- che regolano la contrattazione collettiva sia livello nazionale (primo livello) sia a livello aziendale (secondo livello), scarsamente utilizzata.
Alfredo Magnifico