Il 20 maggio ricorre il cinquantaquattresimo anniversario della legge n. 300/1970, Lo Statuto dei lavoratori”, quella che nonostante le modifiche subite nel corso del tempo resta ancora la normativa di riferimento per i rapporti di lavoro.
Da tempo si sono messi in discussione e buttati nel secchio alcuni dei suoi principi, con poca convinta opposizione delle rappresentanze sindacali.
Non è l’abrogazione di uno o più articoli a sancire il mantenimento o lo smantellamento di un intero universo di diritti sociali, ma la particolare situazione che si vive imporrebbe ben altre priorità.
Non sono mancati grandi contrasti tra coloro che erano a favore e coloro che erano contro, i primi considerano, quella normativa come una conquista sociale e culturale, altri hanno sempre messo in evidenza il consolidarsi attorno ad esso di una cultura del lavoro nemica del merito individuale e dell’impegno.
Dopo anni di scontri si cerca un dialogo costruttivo, fondato sulla necessità di reinterpretare i diritti sociali fondamentali e di tutela economica e di rappresentanza, al fine di garantire sostegno al lavoro “liquido” sfuggente a ogni logica di appartenenza tra dipendente e “padrone”.
Lo Statuto dei lavoratori è stata una delle leggi più duramente contrastate, attaccata già quando era ancora solo una proposta, non si sarebbe potuta realizzare senza un giurista come Gino Giugni, che aveva un’autonomia rispetto alla politica con la quale, pure, collaborava.
Una legge quadro la ipotizzava Giuseppe Di Vittorio già nei primi anni Cinquanta, ma le condizioni per la sua estensione si concretizzarono in un contesto diverso da quello in cui operava Di Vittorio, fu il ministro del lavoro socialista, Giacomo Brodolini, e il giovanissimo Gino Giugni.
Carlo Donat Cattin, inizialmente contrario, lo vedeva come una” visione di tipo americanistico” ispirata a «una mentalità privatistica dei rapporti sindacali”, che vedevano il sindacato come libero agente operante nella società al di fuori di ogni regolazione giuridica.
Giugni, offriva alle rappresentanze dei lavoratori un ruolo di controparte del mondo imprenditoriale e di presenza attiva nella comunità, nonché di tutela di quei valori di partecipazione al benessere e di realizzazione della sicurezza sociale.
La “visione” di Giugni si incentrava sulla tutela dei fondamentali diritti civili e politici sul luogo di lavoro, in un contesto fisico che nell’ultimo decennio era divenuto incandescente per la crescente conflittualità tra datori di lavoro, assistiti da una legislazione che di fatto demandava loro la tutela dell’ordine in azienda, e un movimento operaio in agitazione perché sempre più consapevole della sua forza contrattuale.
L’obiettivo fu quello di avviare il confronto su binari adeguati a una piena democrazia, e stemperare le punte più accese del conflitto, l’ampia maggioranza che approvò lo Statuto comprendeva l’area di governo di centro-sinistra, compresa la Dc che sostenne il documento in blocco, sulla spinta delle sue correnti sindacali, lo sostenne anche il Partito liberale all’opposizione, mentre si astennero i comunisti, non ostili all’accordo raggiunto al punto da ritirare tutti gli emendamenti, ma insoddisfatti per l’approccio ritenuto eccessivamente ancorato al piano giuridico-formale.
L’articolo 18, pensato fu pensato per annullare qualsiasi atto discriminatorio e lesivo dei diritti fondamentali di lavoratori e lavoratrici, e offrire a chi era stato oggetto di discriminazione un’arma in più da far valere in sede di giudizio, non guardava alla conservazione dello specifico posto di lavoro, anche perché un movimento operaio e sindacale così propositivo in termini di miglioramento delle condizioni lavorative traeva la sua forza da un mercato del lavoro tutt’altro che sonnolento e asfittico da almeno due decenni, rallentamento della “congiuntura” a parte.
Il valore del dettato legislativo e la sua applicazione, sono mutati rapidamente, nel tempo le rappresentanze operaie e sindacali sono finite sulla difensiva, le garanzie giuridiche del 1970 sono state usate come uno scudo per chi poteva permetterselo, invece di essere ripensate e rimodulate di fronte a una flessibilizzazione che in molti casi nasconde un vero e proprio sfruttamento ma che in altri è il riflesso dell’innovazione di tecnologie e ruoli.
Arroccarsi sul dettato del 1970 come fossero le parole, e non i fatti, la vera conquista da difendere da un lato porta il mondo del lavoro a uscire sempre più spesso sconfitto, dall’altro crea la percezione errata di voler difendere con lo Statuto dei lavoratori inamovibilità e inefficienza.
La legge 300 del 1970 era innanzitutto una grande conquista sul terreno dei diritti e soprattutto una iniezione di modernità nei rapporti sociali dalla quale non bisognerebbe, per nessun motivo, tornare indietro.
L’articolo 18, tanto attaccato da parte di tutti, sottrae il lavoratore al ricatto occupazionale, garantendone il reintegro in caso di ingiusto licenziamento, era la via per rendere concreti tutti gli altri diritti, come quello alla salute e alla sicurezza nei luoghi di lavoro.
Per la tutela delle nuove tipologie di lavoratori che sono nate in questi ultimi anni,c’è la necessità di ispirarsi ai principi costituzionali che ne sono alla base
Oggi è necessario recuperare lo spirito dello Statuto, in una situazione storica molto diversa e con forme produttive che sono cambiate, si pensi ai lavoratori delle piattaforme, scarsamente tutelati, in questa prospettiva molto bisogna ancora fare anche a livello sovranazionale, per questo è necessaria una cultura giuridica che si ispiri alla grande stagione riformatrice della fine degli anni Sessanta e inizio anni Settanta.
Alfredo Magnifico