Mobbing, il datore di lavoro è tenuto a risarcire il danno

La Corte di cassazione con l’ordinanza 16-2-2024, n. 4279 ha sentenziato che: “la tutela del benessere psicologico e della personalità dei dipendenti costituisce un preciso dovere del datore di lavoro, a garanzia di un ambiente lavorativo sereno, in grado di favorire il pieno sviluppo delle professionalità”.

La cassazione ha qualificato illegittimo;

·        il comportamento del datore di lavoro che consenta, colposamente, il mantenersi di un ambiente stressogeno, fonte di danno alla salute dei lavoratori,

·        l’esistenza di una condizione di lavoro nociva secondo il paradigma di cui all’art. 2087 Codice Civile.(che impone all’imprenditore di adottare tutte le misure necessarie a proteggere, l’integrità fisica del lavoratore, e la sua personalità morale).

La norma è stata specificata dal D. Lgs. 81/2008 -Testo unico in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, che ha accolto, all’art. 2, comma 1, lett. o), la definizione di “salute” fornita dall’Organizzazione mondiale della sanità, quale “stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, non consistente solo in un’assenza di malattia o d’infermità”.

L’ art. 28, ha collocato, fra i rischi lavorativi:

·        “quelli riguardanti gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari,

·        Quelli collegati allo stress lavoro-correlato, secondo i contenuti dell’accordo europeo dell’8 ottobre 2004,

·        Quelli riguardanti le lavoratrici in stato di gravidanza (…),

·        Quelli connessi alle differenze di genere”

·        il mobbing- la condotta del datore di lavoro protratta nel tempo e consistente nel compimento di una pluralità di atti diretti alla persecuzione o all’emarginazione del dipendente, di cui viene lesa la sfera professionale o personale, intesa nella pluralità delle sue espressioni (sessuale, morale, psicologica o fisica).

Non sussiste Mobbing quando è assente la sistematicità degli episodi, ovvero nell’ipotesi in cui i comportamenti su cui viene basata la pretesa risarcitoria siano riferibili alla normale condotta del datore di lavoro, funzionale all’assetto dell’apparato amministrativo, o imprenditoriale nel caso del lavoro privato, o, infine, quando vi sia una ragionevole ed alternativa spiegazione al comportamento datoriale.

Nel caso in esame si è ravvisata la mancata prova di un preciso intento persecutorio connesso alla mancata prova delle sistematicità degli episodi, tuttavia, questo non ha impedito ai giudici di ritenere colposa la condotta del datore di lavoro, il quale, in violazione del disposto generale dell’art. 2087 non ha posto in essere tutte quelle cautele necessarie ad evitare che il luogo di lavoro possa divenire fonte di danno alla persona (complessivamente intesa) del proprio dipendente.

Di qui il riconoscimento della pretesa risarcitoria del lavoratore ricorrente.

Alfredo Magnifico

Commenti Facebook