L’intervento/La Società: tra Giovani fragili e  lavoro Flessibile

Secondo il rapporto Censis, il lavoro atipico interessa in Italia 2,7 milioni di lavoratori, di cui 1,5 con meno di 34 anni. Sui giovani quindi, e ancor più sulle giovani donne, si concentra la domanda di flessibilità dell’economia (e del sistema pubblico, a sua volta generatore di lavoro precario).

Per anni il problema dei giovani è stata la disoccupazione, oggi i tassi sono diminuiti, ma è aumentato il lavoro precario, spogliato di garanzie e di benefici sociali: in parole semplici; ti faccio lavorare e ti pago per quanto vali, se e fino a quando mi servi.

Il lavoro precario, nel passato, si associava con il lavoro nero, poi, molte forme sono state legalizzate (co.co.co, poi co.co.pro, ecc.) ,raccolte in oltre 20 regimi occupazionali diversi, tanto da essere difficoltoso capire la differenza tra dipendente e autonomo, occupato o in cerca di lavoro,alcuni luoghi di lavoro, call center, MC Donald etc..sono diventati emblematici della condizione dei giovani lavoratori, anche istruiti.

Il lavoro precario può essere inteso come:

·        Un passaggio verso il posto di lavoro classico, per es. nel pubblico impiego

·        Una palude, in cui i lavori precari si susseguono o si alternano alla disoccupazione

·        Una forma di tirocinio per accedere a professioni qualificate

·        Una forma di autonomia professionale, consapevolmente scelta.

Circa 4 milioni di ingressi o cambiamenti di posto all’anno, posti-lavoro allo stesso tempo vengono creati e distrutti, lavoratori che si muovono tra occupazione, disoccupazione e sottoccupazione , tra un’impresa e l’altra, concentrati in alcuni gruppi sociali: giovani, donne, immigrati, e lavoratori anziani dequalificati.

All’alta mobilità occupazionale corrisponde una modesta opportunità di carriera, giovani e famiglie reagiscono, all’incertezza e alla vischiosità del sistema occupazionale innalzando i livelli di istruzione, il 90% dei giovani accede alla scuola secondaria superiore, 3 su 4 ottengono un diploma, oltre la metà si iscrive all’università con la speranza di un lavoro dignitoso. 

Le piccole imprese restano diffidenti nei confronti dei laureati, tanti candidati nascondono la laurea per avere più speranze di assunzione, delusione e frustrazione tra i giovani, lamento da parte degli imprenditori, che non trovano i lavoratori che cercano, di qui l’assunzione di manodopera straniera per i bassi livelli del sistema occupazionale.

Il lavoro non ha perso importanza, ma, è venuta meno la dimensione collettiva del lavoro, cioè la sua capacità di generare solidarietà, battaglie condivise, coesione politica, lavoratori e operai, non hanno più un unico partito di riferimento, si è problematizzata l’idea di un collegamento tra occupati e adesione al sindacato, militanza politica e voto nella società industriale, erano omogenee e collegate fra loro, oggi sono diversificate e meno riconducibili ad una identità unitaria.

L’investimento nell’istruzione e nel lavoro dovrebbero essere un’ opportunità di mobilità sociale, ma, da un’indagine della Banca d’Italia emerge che il 53% degli italiani resta a far parte del ceto in cui è nato, il 15,3% scende, solo il 31,7% sale. anche nel resto d’Europa si parla d’arresto dell’ascensore sociale.

Si verifica,anche, una clamorosa trasmissione ereditaria delle professioni più redditizie e tutelate: quasi metà degli architetti (43,9%), degli avvocati (42%), dei farmacisti (40,8%), degli ingegneri (39,2%), dei medici (38,2%) fa laureare almeno un figlio nelle stesse discipline.

I giovani fanno fatica ad emergere e prendere il posto, di adulti che mantengono più a lungo il controllo delle occupazioni e posizioni privilegiate e cercano possibilmente di passarle ai figli,anche se sono più protetti e foraggiati dalle famiglie, anche una volta raggiunta l’età adulta,“il welfare dei giovani è la famiglia”.

Si è sfasciato il patto sociale tra classi e generazioni: chi studiava e si impegnava avrebbe ottenuto migliori occupazioni, e sarebbe entrato a far parte di una classe più elevata di quella dei genitori.

La famiglia diventa agenzia di protezione per: prolungamento degli studi, attesa di un buon lavoro, precariato, agenzia di collocamento, le disuguaglianze si riproducono e si inaspriscono, mentre la mobilità sociale langue.

La polemica sui “bamboccioni”,pigri,choosy, che non vanno fuori di casa è una  forme di colpevolizzazione da parte dei ceti dirigenti,ma se non si separano dai genitori, non è per mammismo o mancanza di coraggio, ma per mancanza di mezzi, opportunità e prospettive.

Si adagiano ad uno stile di vita all’insegna del carpe diem, della composizione di spezzoni di lavoro, aiuti familiari, solidarietà reciproca, condivisione di spazi abitativi e mezzi di sussistenza, in aree urbane degradate che si rivitalizzano, per l’arrivo di giovani tesi a condurre  una vita divertente, spensierata, ricca di socialità, possibilmente creativa, senza progetti e senza attese per il futuro, è come se la vita vissuta, tra precarietà e ricerca di sicurezza, avesse trovato un equilibrio, per cui lasciare la casa della famiglia, per dividerne un’altra con amici, lavorare e studiare facendo contemporaneamente diversi “lavoretti” non si configura più come un comportamento “deviante”, ma si inscrive in una tappa della vita.

Lo slogan potrebbe essere “ci avete privato delle certezze,ci riprendiamo i sogni”.

La precarietà, la difficoltà a sposarsi e a generare figli, la precarietà dei legami e degli impegni, di oggi,di certo non è peggio  delle coppie che si sposavano nell’immediato dopoguerra.

Il mondo del lavoro ; pretende coinvolgimento per offrire poche opportunità, incita a dedizione, senza orari e senza remore, non prende impegni a lungo periodo, non incoraggia scelte familiari impegnative, irreversibili, “a tempo indeterminato”.

La conciliazione tra lavoro e vita familiare si presenta come una sfida sempre più ardua e un cammino impervio di crescita per le giovani generazioni del nostro tempo.

Alfredo Magnifico

Commenti Facebook