Il Tribunale di Roma, con la sentenza del 25 marzo 2021, ha dichiarato nullo il licenziamento intimato durante il periodo di prova, poiché contrario al blocco dei licenziamenti per ragioni economiche, introdotto dall’art. 46, del D.L. 18/2020 (c.d. “Decreto Cura Italia”) e confermato dalla normativa emergenziale succeduta al Decreto stesso, se basato sulla necessità di sopprimere una posizione considerata costosa.
Una lavoratrice veniva assunta da un albergo nel marzo 2020, nella lettera di assunzione era previsto un periodo di prova della durata di 6 mesi, dopo dieci giorni dall’inizio del rapporto di lavoro, arrivava l’emergenza epidemiologica da Covid-19, la struttura alberghiera chiudeva temporaneamente l’attività al pubblico, di conseguenza, l’Ufficio del Personale comunicava a tutti i dipendenti l’attivazione del Fondo di integrazione salariale (c.d. “FIS”), revocandolo alla ricorrente in quanto mancante del requisito previsto per la predetta attivazione (il rapporto di lavoro era iniziato dopo il 23 marzo 2020).
La lavoratrice veniva posta in smart working e nonostante la limitata operatività dell’hotel, svolgeva varie mansioni (conf. call, contatti quotidiani con i referenti dell’ufficio commerciale, condivisione di iniziative di carattere commerciale ecc), il 16 aprile 2020, l’hotel comunicava alla lavoratrice l’intenzione di recedere dal rapporto di lavoro in periodo di prova.
La dipendente ricorreva al Tribunale di Roma per sentir dichiarare la nullità del recesso in quanto fondato su motivo illecito determinante., dimostrando che il periodo di “sperimentazione” non è stato sufficiente ad avallare la risoluzione “ad nutum”, ma celava un licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
La risoluzione durante il periodo di prova può essere disposta, anche in questo periodo, avendo presente che l’azienda deve prestare attenzione ai seguenti requisiti:
· Deve essere stata svolta una quota importante del periodo di prova prima di risolvere il rapporto;
· Il lavoratore deve aver svolto le mansioni per le quali è stato assunto;
· Non è necessario prevedere un motivo alla risoluzione.
Accertato il positivo superamento del periodo di prova e la reale motivazione del licenziamento, l’esigenza di estromettere dal contesto aziendale una risorsa divenuta eccessivamente onerosa, il giudice ha dichiarato la «nullità assoluta del recesso datoriale ai sensi del combinato disposto degli artt. 1418 e 1345 c. c., essendo stato il reale motivo che ha giustificato il provvedimento espulsivo violativo dell’art. 46 D. L. 18/2020» e in quanto tale illecito.
A norma dell’art. 2 del D.Lgs. 23/2015, la società datrice di lavoro è stata quindi condannata alla reintegrazione in servizio della lavoratrice con conseguente condanna al risarcimento del danno e al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali.
La sentenza dimostra che, seppure sia possibile per il datore di lavoro recedere senza motivazione dal rapporto durante il periodo di prova, è principio consolidato quello secondo cui la libertà di recesso non significa che esso sia a totale discrezione del datore di lavoro, ma la discrezionalità deve essere circoscritta nell’ambito della funzione cui il patto di prova è finalizzato, quindi, il recesso può considerarsi nullo, qualora il lavoratore, come nel caso di specie, riesca a dimostrare il positivo superamento della prova e che il vero motivo sia da rinvenirsi in un motivo illecito determinante estraneo allo svolgimento della prova (nel caso di specie in quanto contrario al divieto di licenziamenti per motivi economici introdotto dall’art. 46 del Decreto Cura Italia). Ciò, con conseguente condanna del datore di lavoro alla reintegra in servizio del lavoratore ed al pagamento del risarcimento del danno oltre che dei contributi previdenziali ed assistenziali.
Alfredo Magnifico