Anmil in uno studio sul divario lavorativo riporta che negli ultimi decenni le donne italiane hanno fatto passi da gigante nel mondo del lavoro, dal dopoguerra, l’occupazione femminile, è cresciuta a ritmi sempre più intensi per effetto della progressiva terziarizzazione del lavoro a scapito di attività tradizionali dell’industria e dell’agricoltura.
Dal 1975 ad oggi il numero delle lavoratrici è quasi raddoppiato, da 5,6 a 9,9 milioni di unità, passando dal 28,6% al 42,3%, oggi esistono problemi difficili da scalfire riconducibili alla difficoltà di conciliare i tempi di lavoro con la cura della casa e della famiglia, anche se le donne italiane presentano un gap occupazionale eclatante equiparato agli uomini e alle donne del resto d’Europa.
Il numero delle lavoratrici che si infortunano è nettamente inferiore a quello dei colleghi maschi, nel corso dell’ultimo quinquennio gli infortuni maschili si attestano intorno alle 410.000 unità, quelli femminili a 230.000, poco più della metà, il tasso di incidenza infortunistica (numero di infortuni per 1.000 occupati) è attualmente pari a 30,5% per gli uomini e a 23,2% per le donne, nel caso degli infortuni lavorativi con esiti mortali il numero di quelli femminili, in media circa 115 decessi l’anno nell’ultimo quinquennio, risulta pari a meno di un decimo di quelli maschili la cui media annua si attesta intorno ai 1.200 casi.
Per le malattie professionali, si riscontra una situazione analoga delle 60.000 denunce annue solo il 27% (16.000 circa) riguarda la componente femminile, inequivocabile, una forte sperequazione nei livelli infortunistici dei due sessi, legati alla differente rischiosità delle attività esercitate; le donne sono occupate principalmente nei settori dei servizi a basso livello di frequenza infortunistica; la presenza maschile è invece preponderante in agricoltura, industria e in settori come metallurgia, estrazione minerali, costruzioni, trasporti ecc. che fanno registrare tassi di pericolosità più elevati e nei quali la presenza femminile è marginale e circoscritta a ruoli esclusivamente impiegatizi-amministrativi.
I lavoratori maschi sono prevalenti nella concessione di indennità giornaliere per inabilità temporanea e rendite per inabilità permanente; mentre le donne, a causa della maggiore mortalità degli uomini, sono quelle che percepiscono la stragrande maggioranza delle rendite a superstiti.
L’ANMIL ha individuato numerose criticità da affrontare per adeguare l’attuale sistema di tutela contro gli infortuni sul lavoro alle differenze di genere e al ruolo della donna, al reinserimento professionale della donna vittima di un incidente sul lavoro o malattia professionale, da cui sono derivate alcune proposte migliorative dell’attuale normativa.
L’Anmil ha avviato una riflessione sull’assicurazione contro gli infortuni domestici,che attualmente esclude coloro che svolgono attività che comporti l’iscrizione a forme obbligatorie di previdenza sociale, questa limitazione costituisce una ingiusta negazione della duplicità dell’impegno lavorativo della donna che lavora sia fuori sia in casa, che rimane esposta, senza tutele, a rischi legati alla gestione domestica, per cui si ritiene urgente una modifica normativa che consenta l’iscrizione anche di coloro che svolgono un’attività lavorativa esterna.
Nella stessa ottica si auspica l’estendere la protezione assicurativa a tutte le attività connesse alla cura della famiglia e la gestione domestica.
La donna superstite di una vittima del lavoro, di un infortunio con esito mortale oltre a lasciare un vuoto incolmabile nella famiglia della vittima, ha anche ripercussioni pesanti dal punto di vista economico e pratico, delle quali le donne, già provate dalla perdita, devono farsi carico.
L’Anmil per sostenere le famiglie delle vittime di infortuni e malattie professionali propone di;
1. Escludere le prestazioni erogate a vedove e orfani di vittime di infortuni sul lavoro o di malattie professionali dal reddito rilevante per il calcolo dell’Isee.
2. Rivedere gli istituti dell’assegno funerario, oggi del valore di 10.000 euro, e della prestazione erogata a carico del Fondo per le vittime di gravi infortuni.
3. Unificare le due prestazioni, attraverso il trasferimento delle somme del Fondo per le vittime di gravi infortuni all’Inail, il quale dovrebbe provvedere ad erogare d’ufficio alle famiglie delle vittime una prestazione di sostegno adeguata alle loro esigenze.
4. Riconsiderare le prestazioni riconosciute ai superstiti di infortuni e malattie professionali, alla luce dell’evoluzione della società e dei rapporti familiari, superare la limitazione per la quale le quote integrative della rendita Inail in favore dei figli studenti universitari sono erogate solo se in corso regolare di studi.
5. Equiparare il regime della rendita ai superstiti Inail alla reversibilità della pensione Inps per quanto attiene alla percentuale riconosciuta al coniuge superstite.
6. Garantire la piena erogazione delle prestazioni di assistenza psicologica a carico dell’Inail in favore dei superstiti di caduti sul lavoro o per malattie professionali.
7. Portare ad attuazione l’equiparazione delle vedove e dei superstiti delle vittime del lavoro alle vittime del dovere e della criminalità organizzata per quanto riguarda il diritto al lavoro, rimasta solo un’enunciazione di principio.
Allo stato attuale ci sono circa 85.000 vedove di lavoratori deceduti per cause lavorative, di cui 47.000 (55%) a seguito di infortunio e 38.000 (45%) per malattia professionale. Si tratta, per la gran parte, di eventi relativi a decenni passati: l’età media delle vedove risulta superiore a 75 anni; la rendita media annua è pari a circa 12.000 euro, ogni anno vengono costituite circa 2.800 rendite a superstiti, di cui si stima che siano 2.000 i nuovi casi di rendite assegnate a vedove di lavoratori deceduti, di cui 800 (40%) a seguito di infortunio e 1.200 a seguito di malattia professionale”.
Al di là delle tragiche conseguenze sul piano umano, familiare e psicologico, come può essere la morte di un marito, c’è da considerare anche gli aspetti economici di una moglie o di una famiglia che ha perduto quella che è la principale e spesso unica fonte di sostentamento.
Attualmente la rendita percepita da ogni vedova, qualunque sia stato il salario del coniuge deceduto, ammonta a circa 1.280 euro mensili; la rendita sale a circa 1.800 euro mensili nel caso di vedova con 1 orfano, a 2.300 con 2 orfani e a 2.560 con 3 o più orfani”.
Più recentemente, “la legge 145/2018 (legge di stabilità 2019) ha fissato in 10.000 euro l’assegno una tantum che sostituisce il vecchio assegno funerario, pari a poco più di 2.000 euro, che veniva erogato per far fronte alle prime spese derivanti dal tragico evento. Piccoli ma significativi riconoscimenti che consentono, quantomeno, di condurre una vita un po’ più dignitosa a quelle donne e a quelle famiglie che hanno conosciuto la tragedia di non vedere il proprio marito rientrare a casa dal posto di lavoro.
Alfredo Magnifico