L’ultimo rapporto dell’Osservatorio Hr Innovation Practice della School of management del Politecnico di Milano, realizzato insieme alla società di ricerche di mercato Bva Doxa, riporta che; il 56% di chi ha lasciato il posto negli ultimi 12 mesi rimpiange la scelta fatta, solo il 9% degli italiani sta bene in ufficio, appena il 5% si dice felice del lavoro che fa, mentre il 13% lavora anche nel tempo libero.
Lo studio prende in considerazione: il benessere fisico, psicologico e relazionale e sulla base di questi indicatori,si evince che oggi, soltanto il 5% degli impiegati è «felice» in ufficio, il 9% dichiara di «stare bene» mentre Il 42% degli italiani è spinto a cambiare lavoro a causa di malessere e infelicità.
Nel 2023 chi si è dimesso nel 56% dei casi, vorrebbe tornare indietro, chi ha lasciato il posto fisso, nel 36% dei casi, lo ha fatto per andare alla ricerca del «benessere fisico e mentale» le persone che cambiano lavoro vanno alla ricerca di migliori opportunità di carriera e di occupabilità.
Dallo studio emerge anche una costante incapacità di conciliare vita e lavoro, il 22% dei dipendenti è colpito da burnout, quell’ esaurimento psicofisico che assilla soprattutto i più giovani.
Inoltre si è sviluppato quel malessere generale nei Job Creeper, coloro che non riescono a staccare mai e lavorano anche quando dovrebbero curare la vita privata, nel 2023 questa percentuale è stata del 13% contro il 6% dell’anno precedente.
Rimane stabile la quota dei «Quiet Quitter», impiegati che fanno il minimo indispensabile senza lasciarsi coinvolgere emotivamente dalle attività professionali.
Tra i fattori che allontanano aziende e dipendenti c’è la formazione, le imprese difficilmente riescono a soddisfare le aspettative dei dipendenti coniugando un giusto equilibrio tra salario, carriera e stile di vita in linea con le aspettative, ecco perché, il luogo di lavoro è sempre meno un posto dove le persone «stanno bene», questo contribuisce anche al mancato incontro tra domanda e offerta.
L’88% delle aziende cerca di attrarre talenti, esperti di digitale, operai specializzati, professioni sanitarie e tecnici delle costruzioni civili, ma fatica ad assumere nuovi dipendenti, il mancato allineamento è dovuto all’assenza di competenze tecniche, nel 57% dei casi, e relazionali (le cosiddette soft skills), nel 36%.
Il 40% di chi assume lo fa offrendo stipendi più alti, ma a non poterselo permettere sono soprattutto le pmi, sconfitte da quella che viene definita «una guerra di salari con conseguenze negative per l’intero mercato».
Tra le soluzioni c’è la formazione interna del personale, reskilling e upskilling, bisogna partire dalle persone che rischiano di perdere il posto perché la transizione digitale richiede nuove mansioni e serve formare sulle competenze più richieste, oggi l’8% dei lavoratori va riallocato o riqualificato perché a rischio obsolescenza.
Il processo dovrebbe avvenire con la giusta sintonia tra le necessità dell’azienda e le propensioni personali dei dipendenti.
Alfredo Magnifico