Con la sentenza n. 17589 del 4 settembre 2015: sul prolungare la prestazione lavorativa fino alla soglia dei 70 anni, sulla base della previsione contenuta nell’art. 24, comma 4, del D.L. n. 201/2011, convertito nella legge n. 214 hanno posto un punto fermo le Sezioni Unite della Cassazione poiché nei vari gradi della giustizia di merito ed in relazione a varie controversie insorte, aveva dato luogo ad interpretazioni oscillanti. Le Sezioni Unite sono intervenute dopo la specifica remissione operata dalla sezione Lavoro in data 3 novembre 2014 che aveva ritenuto opportuno investirle, attesa la particolare importanza delle questioni correlate alla controversia, ma anche per stabilire, su una materia particolarmente intricata, un indirizzo uniforme per gli organi giudicanti.Secondo la Suprema Corte l’art. 24, comma 4, non riconosce al lavoratore un diritto soggettivo di natura potestativa da esercitare nel caso in cui intenda continuare a lavorare fino ai 70 anni, rispetto al quale l’imprenditore non ha alcun motivo per opporsi: il proseguimento della prestazione non può che essere la conseguenza di un accordo raggiunto con il proprio datore di lavoro.
La possibilità di proseguire l’attività lavorativa fino al compimento dei 70 anni, osservano le Sezioni Unite, e’ ipotizzata soltanto nella parte che disciplina il sistema pubblico ove si afferma che ” il proseguimento dell’attività lavorativa e’ incentivato dall’operare dei coefficienti di trasformazione calcolati fino all’età di 70 anni”, fermi “restando i limiti ordinamentali dei rispettivi settori di appartenenza” in essere per alcuni comparti come quello del pubblico impiego ove, oggi, il limite massimo per il pensionamento di vecchiaia risulta, inderogabilmente, fissato a 65 anni, con le sole eccezioni che riguardano alcune categorie come i Magistrati ed i Professori Universitari. Nella sostanza, la Corte, stante la genericità della norma contenuta nel comma 4 dell’art. 24, ha ritenuto che la incentivazione al prolungamento del rapporto non deve entrare in contrasto con le disposizioni che sul piano legislativo regolano i vari comparti (individuati sulla base della disciplina del rapporto sia sul piano della regolazione sostanziale che di quella previdenziale) di appartenenza del lavoratore e che potrebbero essere ostativi al nuovo regime previsto dalle disposizioni oggetto di esame.
La Corte non riconosce all’interessato un diritto alla prosecuzione, rispetto al quale il datore di lavoro si trovi in una posizione passiva, ma ritiene che lo stesso non possa prescindere da un accordo tra le parti ove le stesse ritengano, congiuntamente, che ci siano le condizioni per la prosecuzione del rapporto.Ma, cosa significa, la tutela che il Legislatore accorda al lavoratore stabilendo che in caso di licenziamento trova applicazione l’art. 18 della legge n. 300/1970 ?La Corte risponde affermando che essa non è altro che la tutela accordata, nelle imprese sopra dimensionate alle quindici unità, ai lavoratori in forza prima del 7 marzo 2015, data di entrata in vigore del D.L.vo n. 23/2015: in caso di prosecuzione del rapporto (senza alcuna soluzione di continuità) previo accordo con il datore di lavoro, il soggetto interessato gode di tutte le tutele e le garanzie previste al momento della costituzione dell’originalità rapporto di lavoro a fronte di un provvedimento di recesso ingiustificato.Da ultimo, atteso che la questione sollevata riguardava un giornalista, le Sezioni Unite, si pronunciano anche sulla natura dell’INPGI, l’Istituto di previdenza dei giornalisti, osservando che lo stesso rientra tra gli Enti privatizzati per effetto del D.L.vo n. 509/1994 pur se ha sempre gestito una forma sostitutiva dell’Assicurazione Generale Obbligatoria.
Da ciò ne consegue che i giornalisti per i quali è obbligatoria l’iscrizione, non possono essere destinatari della disposizione che consente la prosecuzione, in accordo con il datore di lavoro “sulla base di una reciproca valutazione di interessi”, fino al limite dei 70 anni, in quanto tale opportunità e’ riservata dal Legislatore unicamente a coloro che sono iscritti, a vario titolo, ad una delle gestioni dell’INPS.Le Sezioni Unite rimarcano come il giudice di merito abbia, si’, avuto come riferimento la sentenza della Cassazione del 26 gennaio 2012, n 1098, ma abbia omesso di valutare la portata dei cambiamenti avvenuti con il D.L.vo n. 509/1994.Un brevissima conclusione su quanto deciso dalla Suprema Corte: le imprese, in caso di possibile prosecuzione del rapporto con propri dipendenti che hanno maturato i requisiti per il trattamento pensionistico assumono una maggiore valenza decisionale, nel senso che possono, validamente opporsi alla prosecuzione del rapporto, senza essere soggetti ad alcuna limitazione. E’ chiaro che tutto questo andrebbe tradotto, soprattutto nelle grosse realtà aziendali, in accordi collettivi finalizzati a ridurre l’orario di lavoro ed a prospettare forme di uscita “gestita” dal lavoro anche in un’ottica di cambio generazionale. Ma questo e’ un altro problema che richiede anche un altro tipo di valutazioni.
Alfredo Magnifico