La nuova conflittualità che caratterizza il mondo del lavoro, più che frutto della contrapposizione tra capitale e lavoro, è riconducibile alla contrapposizione tra chi promuove la dignità del lavoro e chi invece “specula” su di esso.
La buona economia ha necessità di buoni imprenditori capaci di interrogarsi su ciò che è bene e ciò che è male, tesi a perseguire il bene dell’impresa attingendo a valori forti ispirati al benessere dei dipendenti, in grado di costruire relazioni di qualità con tutti coloro che entrano in relazione con l’impresa, garantire l’equilibrio tra le esigenze economiche e le istanze umanistiche, non guardare al breve periodo, ma operare con intelligenza e creatività imprenditoriale.
Un’ imprenditore con una cultura d’impresa capace di coniugare la necessaria disciplina delle regole interne all’organizzazione con la promozione di un’iniziativa diffusa, in grado di generare quelle innovazioni di cui qualsiasi organizzazione ha bisogno per fiorire e mantenersi vitale.
Il contrario del buon imprenditore è il cattivo imprenditore, il “mercenario”, lo “speculatore” il confine tra questi due diversi modi di essere imprenditore è il senso che si dà a quello che fanno.
Il buon imprenditore si basa sulla logica del servizio; quello dello “speculatore” si basa su quella del servirsi di tutto e tutti, negando il concetto che il lavoro è un bene utile e degno dell’uomo per accrescere la sua dignità.
Lo smarrimento del vero significato di lavoro si ripercuote nell’impresa, con la conseguenza che quelli che dovrebbero essere i mezzi; la tecnica, la finanza, il profitto, diventano i fini del lavoro e dell’impresa, intrappolando l’uomo in un paradigma di sviluppo che provoca la disgregazione dei legami sociali e minaccia le fondamenta della società civile, finendo per generare sfiducia, prevaricazione, individualismo, esclusione, iniquità.
L’economia dell’esclusione riduce l’uomo ad oggetto di il consumo, alimentando la “cultura dello scarto” e ignorando l’intima relazione tra le cose del mondo.
Il lavoro dovrebbe essere un’opportunità di miglioramento della vita sostituendo la competizione a “cooperazione”, “mutua assistenza” e“reciprocità”.
Il lavoro non lo crea lo Stato, ma le imprese, la buona economia richiederebbe accanto a buoni imprenditori, buone istituzioni, alle quali spetterebbe il compito di costruire una cornice istituzionale capace di promuovere l’imprenditorialità produttiva con il disincentivare quella improduttiva, basata sulla ricerca della rendita e sulla speculazione a danno dei lavoratori.
Il sistema politico sembra orientato più ad incoraggiare chi specula sul lavoro, piuttosto che chi investe e crede nel lavoro.
Ci sarebbe necessità di qualità delle istituzioni, alle quali compete definire un solido contesto giuridico, al cui interno i conflitti che interessano il mondo del lavoro devono trovare risposta ed essere indirizzati verso il bene comune, promuovendo quell’ imprenditorialità che crea sviluppo e opportunità di lavoro.
Il ruolo delle istituzioni non è quello di trasformare i disoccupati in “pensionati”, promuovendo politiche del lavoro che privino l’uomo dell’opportunità di lavorare, finendo di privarlo di dignità, l’obiettivo vero da raggiungere è il “lavoro per tutti”, impegnando non solo le istituzioni, ma l’intera società, secondo la responsabilità di ciascuno.
La strada è riscoprire il senso ultimo del lavoro, tracciato da chi scrisse lo statuto dei lavoratori e quegli articoli della costituzione che per anni sono stati la linea guida di legislatori, contribuendo al riavvicinamento della cultura economica e manageriale al benessere di chi lavora, individuando leadership virtuose, capaci di materializzare la propria vita nel lavoro, stemperando e correggendo quelle tendenze pericolose che portano ad assolutizzare gli interessi in gioco a discapito del lavoro e dell’uomo.
Alfredo Magnifico